Se questo è un uomo, se questa è una donna. A proposito del femminicidio di Vania

4 / 8 / 2016

Pubblichiamo, tratto da Iltafferuglio.org, un interessante articolo di Sasso nello Stagno sul femminicidio di Vania, avvenuto a Lucca alcuni giorni fa.

I mostri che abbiamo dentro

Ogni volta che ci si trova a scrivere dopo una tragedia, è una sconfitta. Una sconfitta che deve farci sentire sulla pelle quello schiaffo, quel sentimento di vergogna di cui parla Primo Levi ne La tregua: la vergogna “che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”.

Vania, la donna di 46 anni che è stata prima cosparsa di benzina e poi arsa viva da Pasquale, il suo ex che non accettava la fine della relazione, è infine morta mercoledì mattina all’Ospedale di Cisanello, dopo aver riportato ustioni sul 90 % del corpo. Martedì, sul piazzale antistante l’ospedale, mentre il corpo martoriato di Vania veniva trasportato in elicottero nell’ospedale dove sarebbe morta alcune ore dopo, come un macabro lascito della violenza consumatasi, sono rimasti alcuni resti inceneriti dei suoi vestiti. Un episodio di violenza che ricorda tristemente quello subito da Sara Di Pietrantonio, la ragazza di 22 anni morta a Roma pochi mesi fa, prima strangolata e poi bruciata dal suo ex. Quello di Vania è l’ultimo, l’ennesimo caso di femminicidio.

Se vogliamo riflettere su che cosa è la violenza sulle donne oggi in Italia, e se vogliamo capire come far sì che il conteggio di queste morti scenda fino a toccare un giorno lo zero, non è affatto fuori luogo partire da Primo Levi. In quel libro terribile che è Se questo un uomo,  lo scrittore torinese ha saputo testimoniare e raccontare fino a che punto un essere umano come noi possa ridurre un proprio simile, degradandolo, umiliandolo, privandolo di tutto ciò che costituisce la sua umanità, prima di distruggerlo definitivamente.

Ma è anche lo scrittore che a partire da quell’esperienza devastante e indicibile, ha saputo e voluto proporre “uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”, nella convinzione, intellettuale ed etica, che l’unico modo per non soccombere dinanzi all’orrore del mondo, sia innanzitutto quello di studiare e di comprendere perché una determinata serie di eventi, compresi quelli più mostruosi e terribili, è potuta accadere. E dunque, qualora non si voglia imparare quella lezione, o la si dimentichi colpevolmente, pensando che riguardi sempre degli altri da noi, come e perché quella serie di eventi possa ripetersi. Qui, domani, oggi stesso. Con noi come protagonisti.   

In genere, di fronte a degli eventi atroci che ci colpiscono e ci fanno inorridire, ci identifichiamo automaticamente con le vittime. La reazione più immediata, più emotiva, più facile, più comoda, più pigra. Je suis, je suis, je suis… Sta proprio qui l’errore, che se reiterato si trasforma in colpa: il sottrarsi al cimento dell’analisi, della ricerca delle cause, all’obbligo di provare a entrare nei panni dei carnefici, di provare a riconoscere nei loro pensieri, nelle loro parole, nei loro gesti quotidiani, noi stessi.

Ecco dunque il primo compito che dobbiamo assumere fino in fondo. Scartare subito la soluzione più semplice (“Io sono Vania”), provare invece ad affrontare il demone che ci abita e chiederci, noi uomini, con spietata onestà: “Sono io Pasquale?”. Perché Pasquale non è venuto da Marte, ha probabilmente frequentato le nostre stesse scuole, lo abbiamo magari visto in un bar prendere un caffè, o passeggiare sulle Mura. Egli è vissuto nello stesso ambiente che attraversiamo tutti i giorni. E se, dopo l’illuminismo e dopo Marx, dovremmo aver finalmente capito che il comportamento umano è determinato da una pluralità di fattori tra cui un grande rilievo hanno l’ambiente sociale e culturale circostante, significa chenon possiamo assolverci, derubricare gesti di violenza come questo alla mera categoria dello squilibrio mentale.

Quello che dobbiamo fare, invece, e che dovevamo fare già da ieri, è provare ad annusare l’aria che respiriamo, per vedere se qualcosa ci è sfuggito, se una qualche puzza che avremmo dovuto sentire, finisce col diventare impercepita per la forza dell’abitudine. Provare a scrutare, nelle conversazioni che ascoltiamo e a cui partecipiamo, nei luoghi e nelle persone che frequentiamo (che, come siamo portati a pensare di noi stessi, non diremmo mai che possano arrivare a compiere determinati gesti), l’anticamera dell’irreparabile. Ciò che, a tragedia avvenuta, chiamiamo “follia” e “mostruosa bestialità”, è stata spesso preceduta da parole, atti, sintomi che siamo portati a considerare come normali ed umani.

Ecco perché, se vogliamo andare alle radici del femminicidio, non dobbiamo ricercare un’ideologia di sopraffazione autoconsapevole facilmente individuabile, bensì un sentire sparso e diffuso, che culmina solo a volte nel gesto estremo, e che dunque, proprio per il suo essere sparso, diffuso e “a metà”, richiede più attenzione e più sforzo per essere riconosciuto e combattuto. Ecco perché di nuovo dobbiamo ricorrere a Primo Levi,  che in riferimento al razzismo e alla xenofobia ci fornisce un monito su cui non dovremmo mai cessare di meditare e di tenere presente, anche in relazione all’argomento che stiamo affrontando:

“Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena…”

Chiamare le cose con il proprio nome

Da alcuni mesi la parola femminicidio è cominciata a entrare nella cerchia delle parole che ci suonano più familiari. Una parola la cui realtà ci viene tristemente ricordata ogni settimana dall’aumento del numero delle vittime della violenza maschile (e maschilista) sul corpo delle donne.

Per quanto sembri un fatto piccolo l’aver cominciato a indicare linguisticamente l’assassinio di una donna da parte di un uomo per “motivi passionali” con un nome specifico, non lo è. Perché dare un nome specifico a un fenomeno specifico, contribuisce a meglio definirlo e individuarlo, a dare coscienza del problema da affrontare, con una pluralità di strategie e di mezzi da mettere appositamente in campo. Senza per questo ovviamente trascurare quanto del nucleo di pensiero che sta all’origine di quel gesto, si ripeta in altri ambiti della vita economica e sociale, con le stesse dinamiche, volte a negare all’altra persona il diritto alla libertà, alla dignità, alla felicità, alla differenza.

È probabile che il termine femminicidio non raccolga un consenso unanime. Per quanto sia restio a emergere in superficie, è plausibile pensare che ci sia più di una resistenza all’interno del mondo maschile ad accogliere questo termine, così come a farsi fino in fondo carico del problema che esso designa. In nome di una malintesa parità di genere, si vorrebbe equiparare gli episodi di violenza degli uomini sulle donne con quelli che procedono in direzione inversa. Ora, per quanto le dinamiche di potere e di sopraffazione (fisica, psicologica, economica ecc.) all’interno delle relazioni sessuali siano trasversali ai generi, è innegabile che la bilancia pende nettamente da una parte. Chi afferma il contrario è in malafede e, come ricordava Don Milani,non c’è cosa più ingiusta che fare parti uguali fra diseguali.

Alla radice del femminicidio, si pone giustamente da più parti l’indisponibilità, e prima ancora l’incapacità di alcuni uomini, di riconoscere alle proprie mogli, fidanzate, sorelle, figlie, il diritto ad autodeterminarsi, di decidere in autonomia se, come e a chi fare dono del proprio corpo. Le si vede cioè non come delle persone dotate di autonomia, ma come degli oggetti, dei possessi che contribuiscono a formare l’identità e lo status del maschio dominante.

Per quanto consciamente condannata, la concezione della donna come oggetto continua a persistere impercepita e rimossa in molti uomini, con delle conseguenze pratiche enormi. Un oggetto non ha una sua libertà. Un oggetto non ha una sua dignità. Un oggetto lo si compra, oppure lo si conquista. Un oggetto si possiede. Si usa. Si consuma. Lo si getta via non appena non è più in grado di appagarci. Se un altro lo desidera e prova a prenderlo ci incattiviamo, se ci viene portato via sentiamo il fatto come una rapina. A volte siamo disposti persino a distruggerlo pur di impedire che rechi piacere ad altri.

Non è un caso che molti episodi di violenza su donne che non accettano più la compagnia del loro marito o amante, compreso quello da cui prende le mosse questo articolo, non siano volti semplicemente a infliggere dolore alla persona che sceglie di allontanarsi, bensì a distruggere l’identità femminile proprio nell’elemento da cui, nell’ottica maschile, può scaturire una potenziale nuova relazione: la bellezza, la seduttività del suo corpo. Per questo molte delle vittime della violenza maschile vengono bruciate, o sfregiate con l’acido. Si tratta di un atto di calcolata crudeltà che dà la misura dell’accumulo di risentimento che può spingere gli uomini a vendicarsi nei confronti delle donne da cui si sentono “traditi”. Un risentimento che, negli uomini che non sono in grado di fare i conti con la ferita narcisistica che deriva da un rifiuto o da un abbandono, trasforma quel “Non posso vivere senza di te”in un“Non hai il diritto di vivere senza di me”.

Ciascuno di noi, nel linguaggio quotidiano, è portato ad ascoltare o a fare inconsapevolmente uso di espressioni che riducono la donna a oggetto, ad appendice della figura maschile, funzionale al soddisfacimento del suo piacere o alla conferma della sua identità sociale. Basti pensare al fatto più semplice e banale, alla frequenza con cui, all’interno delle cerchie maschili, si esprimono commenti circa l’attrattività sessuale dell’altro sesso identificando le donne con i loro organi genitali. Una sineddoche che può apparire innocua e scherzosa, frutto del linguaggio popolare e della sua cultura. È sicuramente anche questo, ma ciò non toglie che si tratta di un uso del linguaggio che veicola una visione del mondo. Una visione che può anche armare le mani.

Ciò detto, il maschilismo e la misoginia, il disprezzo nei confronti delle donne, non può essere derubricato a un problema che riguarderebbe solo le classi sociali inferiori e meno acculturate,come se fosse una questione di mera ignoranza e rozzezza. Occorre invece ricordare, soprattutto oggi che va di moda parlare di scontro di civiltà, come il patriarcalismo, il dominio dell’uomo sulla donna, siano degli aspetti originari e costitutivi dell’Occidente, della sua cultura e delle sue formazioni discorsive.

Basti pensare a come, in uno dei poemi fondativi della cultura occidentale, l’Iliade, gli eroi greci combattano, uccidano e muoiano per vendicare un adulterio, a come i capi dell’esercito considerino le mogli e le figlie del nemico come un oggetto di conquista e di bottino. Lo stesso episodio che dà inizio al poema, l’ira di Achille, scaturisce dall’orgoglio ferito nel vedersi privare da Agamennone di ciò che ritiene gli spetti di diritto, la proprietà della schiava Briseide. Oppure, spostandoci dall’antica Grecia alla latinità, a come una delle leggende fondative dell’antica Roma, il ratto delle Sabine, veda ancora una volta degli uomini che si impossessano con la forza del corpo delle donne.

Oppure ancora, facendo un salto in avanti di più di due millenni in cui l’ideologia patriarcale sopravvive ai piani più alti di ciò che chiamiamo la nostra “tradizione culturale”, continuando allo stesso tempo a incarnarsi in numerosi istituti sociali e giuridici, a come anche quello che consideriamo il punto di svolta e di rottura tra il “Medioevo” e la “Modernità”, vale a dire il movimento illuminista della borghesia, veda uno dei suoi massimi teorici, Jean-Jacques Rousseau (e i suoi seguaci giacobini), riproporre idee misogine e tese a confinare le donne nell’ambito della sfera privata, della cura della famiglia, lasciando la vita sociale e politica ai maschi. Un lascito che si depositerà giuridicamente nel Codice civile napoleonico, che farà da modello per tutto l’Ottocento al diritto di famiglia borghese.

Stendere una storia dei rapporti di potere tra i generi e delle ideologie che vi hanno fatto e vi fanno tuttora da supporto, non ci interessa qui. Non ne abbiamo le spazio né le competenze. È però importante tenere a mente l’idea che la parità di genere, l’idea che la donna abbia gli stessi diritti e la stessa dignità dell’uomo, è un qualcosa di estremamente recente,qualcosa che solo con estrema fatica e grazie alla tenacia delle femministe è riuscito a imporsi nel Novecento, e in particolar modo in seguito alla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta.

Una conquista fragile e precaria, tuttora in divenire, che dovrebbe metterci in guardia, farci capire (su questo come su altri fronti) che nessuna conquista sociale, culturale e giuridica è al riparo dall’essere revocata, se si dismette l’impegno a tenerla viva con le lotte. Un terreno che non può essere semplicemente delegato alle istituzioni, ma che deve essere praticato nell’autonomia della mobilitazione collettiva e dal basso.Un compito impellente che deve vedere necessariamente la partecipazione e il sostegno degli uomini, ma che non può non vedere come protagoniste in primo luogo le donne.

Per tutte queste ragioni è importante che a proposito dell’uccisione di donne da parte dei loro mariti o partner, si sia cominciato a parlare di femminicidio, e non più di delitto passionale, o come, si diceva una volta, di “delitto d’onore”. Perché solo riconoscendo la specificità di queste dinamiche omicide, e i fattori culturali e sociali che le preparano, è possibile provare a individuare correttamente il problema e a intervenire preventivamente. Bisogna imparare a pesare e a usare bene le parole. Perché, come scriveva Albert Camus, “non chiamare una cosa con il proprio nome significa accrescere il dolore del mondo”.

Educare e prevenire, perché non si muoia più di femminicidio

Dopo episodi di deliberata ferocia come quello con cui è stata assassinata Vania, è comprensibile che il sentimento successivo all’orrore sia quello di espellere il corpo infetto dell’assassino dalla società (e dalla propria immagine dell’Io), assicurandogli l’ergastolo o, come si sente dire in questi casi, ripristinando la pena di morte. È una reazione come detto comprensibile, ma che purtroppo non aiuta minimamente a far sì che simili episodi purtroppo si ripetano. O si ha l’onestà e la volontà di indagare e di intervenire su quello che riteniamo essere il “corpo sano”, o altrimenti non passerà molto tempo prima di assistere all’ennesima morte annunciata.

Dalle indagini è emerso che Vania, nonostante ci fossero tutti gli estremi per farlo, non ha denunciato per stalking Pasquale. Un gesto di avvertimento che forse avrebbe potuto salvarla (e, per quanto possa suonare stridente dirlo, avrebbe potuto salvare anche lui dal compiere quel gesto). Una decisione che forse Vania, come tante altre donne che avrebbero potuto farlo, non ha compiuto per un malinteso senso di responsabilità, per la volontà di non fare del male all’altro, per la paura di restare isolata e incompresa, di essere etichettata come “stronza”.

Alla radice di tanti femminicidi, c’è spesso una condizione di profonda solitudine che rende le vittime maggiormente vulnerabili alla violenza dei loro carnefici. Creare una rete di protezione e di solidarietà attorno alle donne vittime o potenziali vittime di violenza è un compito imprescindibile che deve vedere un’azione congiunta di parenti, amici, associazioni e istituzioni. C’è bisogno più che mai ad esempio, di un centro anti-violenza in ogni provincia italiana. Il pesante definanziamento che hanno subito i centri anti-violenza in questi anni esponendo molti di loro al rischio concreto di chiusura, se dà un lato dà l’idea di quanto siano di coccodrillo le lacrime della politica, dall’altro impone a tutti noi il dovere di dare a questa battaglia il rilevo che merita. Se non ora, quando?

Infine, ed è forse la cosa più importante, c’è bisogno che venga finalmente introdotta come materia nelle scuole l’educazione sentimentale e alla parità di genere. Qualcosa di molto di più della pur necessaria educazione alla sessualità e alla conoscenza del proprio e altrui corpo: un’educazione all’empatia, al rispetto dell’autonomia dell’altra persona, un addestramento alla capacità di attraversare le esperienze della solitudine e dell’abbandono, senza farne un motivo di distruzione della vita propria o altrui.

Non basta fare appello al ministro dell’istruzione perché provveda a sanare questa lacuna del nostro sistema di istruzione, c’è bisogno che fin da ora studenti e professori comincino a far sì che di queste cose, già da ora si cominci a parlare all’interno delle aule. Prendendosi anche in maniera autonoma gli spazi e i tempi per farlo, se necessario. In tutto ciò rimane aperta la contraddizione di come la scuola possa fare questo, quando le ultime riforme, e in particolare quella renziana, hanno teso a svuotarla della sua funzione di formazione dell’uomo o del cittadino, rendendola invece sempre più simile a un’agenzia di ingresso di nuova forza lavoro nei circuiti della competizione e del mercato. Come può un’istituzione che sempre più addestra al successo individuale, al cercare a tutti i costi di essere più bravi e a schiacciare chi ci sta accanto, che legittima l’autosfruttamento per mezzo dell’alternanza scuola-lavoro, insegnare il rispetto degli altri e di se stessi? O per dirla in termini più espliciti: per quanto il dominio dell’uomo sulla donna sia più antico di quello dell’uomo sull’uomo che si realizza nel capitalismo, è possibile liberarsi del primo senza liberarsi anche del secondo? 

Infine, per quanto possa suonare fastidioso dirlo oggi, se davvero vogliamo fare tutto il possibile per evitare che di femminicidio si continui a morire, se vogliamo davvero non lasciare nessuna strada intentata, associazioni e istituzioni devono riflettere su come far sì che il lato della prevenzione della violenza maschile non contempli soltanto la pur ovvia e necessaria azione repressiva, ma anche quella dell’aiuto e del sostegno psicologico nei confronti degli uomini che, non avendo gli strumenti culturali, sociali e affettivi per fare i conti con un rifiuto e l’abbandono, sono maggiormente esposti al rischio di riversare il loro risentimento e la loro solitudine in violenza. Dicendo questo non si fa, come si sente spesso dire oggi, del “buonismo”, né si dà l’esca per delle giustificazioni. Si tratta invece di provare a comprendere fino in fondo, materialisticamente, la pluralità di cause e di fattori che stanno alla base del femminicidio e su cui dunque è necessario intervenire. La riprovazione sociale nei confronti dei carnefici maschi, che emerge in seguito a tragedie come queste, e che si spera continui a rimanere alta, purtroppo da sola non basta, così come non basta gridare all’inasprimento delle pene.

Il punto di partenza di questa riflessione è che Pasquale sia una persona come noi. Se oggi lo si definisce mostro, significa che tutti noi uomini, potenzialmente, siamo dei mostri.

Nessun sentimento, da questo punto di vista, è più sterile dell’indignazione che si sottrae allo sforzo di comprensione del mondo e all’impegno collettivo che abbiamo il dovere di mettere in campo per trasformarlo. Perché è solo provando a decostruire i mostri, non lasciandosene spaventare inorriditi, non arrendendosi alla loro imprevedibilità e ineluttabilità, bensì provando a ridurli alle nostre proporzioni, solo facendo questo, possiamo dotarci degli strumenti adeguati al compito di togliere dal mondo la sofferenza evitabile (e per questo doppiamente tragica) che lo abita e lo attraversa.

Se c’è una forza etica che risiede nel migliore illuminismo, e nei suoi derivati culturali, questa forza risiede nello sforzo di sottrarre il consorzio umano al puro stato di natura, alla violenza della sopraffazione e del predominio, lo sforzo di costruire grazie alla civiltà uno spazio in cui l’uomo possa imparare a fare i conti e a gestire le proprie pulsioni, comprese quelle più tristi e distruttive, senza riversarle nella morte e nella violenza prevaricatrice. È lo stesso sforzo, intellettuale ed etico, che anima l’opera di Primo Levi, e che dobbiamo fare nostro, se non vogliamo che di femminicidio si continui a morire:

“Meditavo pensieri amari: che la natura concede raramente indennizzi, e così il consorzio umano, in quanto è timido e tardo nello scostarsi dagli schemi della natura; e quale conquista rappresenti nella storia del pensiero umano, il giungere a vedere nella natura non più un modello da seguire, ma un blocco informe da scolpire, o un nemico a cui opporsi.”