Shut up!

In risposta a De Rita e Tremonti (e a Sacconi e Meloni)

18 / 4 / 2011

È proprio vero, l'Italia non è un paese che valorizza il merito. Come spiegare altrimenti il numero due del Cnr (Roberto De Mattei) e le sue boutade, come il prestigio del fondatore del Censis, il “sociologo” Giuseppe De Rita. Sul primo già molte penne hanno consumato i loro sforzi, sul secondo mi preme dire subito qualcosa, tanta è l'indignazione dopo aver letto l'intervista dallo stesso rilasciata quest'oggi a Repubblica.

Premessa, De Rita, nella sua intervista, commenta le dichiarazioni di Tremonti di due giorni fa. Al termine del vertice del Fmi, a Washington, il super-ministro dell'Economia ‒ l'unico uomo che conta in questo momento in Italia (vedi la vicenda Generali e le nomine di Eni, Enel e Finmeccanica) ‒ ha chiarito che se per tutti la crisi ha inaugurato una fase di «crescita senza occupazione», per l'Italia le cose stanno diversamente: in Italia c'è lavoro a non finire, semplicemente i giovani italiani sono poco inclini all'umiltà, hanno studiato troppo e si sono montati la testa. Sono i migranti, secondo Tremonti, ad accettare questi lavori, tanto che, secondo le sue stime, tutti i migranti in Italia lavorano. Con il solito razzismo Maroni ha precisato: non è vero che i giovani italiani non lavorano e, altrettanto, non è vero che i migranti lavorano, anzi, sono scansafatiche ed è meglio che stiano «fora dai ball». Al di là della competizione estremistica, ciò che conta è la sostanza del discorso tremontiano, la stessa sostanza del ritornello di Sacconi o della “brillantissima” Meloni (ma ve la ricordate, “somara”, alla Sapienza?). Il ritornello è davvero semplice: in Italia c'è un eccesso di forza-lavoro qualificata; questa eccedenza strutturale non va d'accordo con la composizione del capitale italiano (prevalenza della piccola e media impresa, subfornitura, bassissimo contenuto tecnologico e di innovazione); i giovani, troppo formati, si sono montati la testa, laddove, invece, devono abituarsi a fare «lavori umili e manuali». Questo il ritornello, la variazione tremontiana minima, la «solita merda».

De Rita, però, è un “esperto” e sappiamo quanto sono importante gli esperti. Cosa ci dice nella preziosa intervista rilasciata a Repubblica? Che i giovani devono smettere di studiare cose che non servono, devono piuttosto ritornare negli Istituti tecnici, evitare, se possibile, di andare all'università e, piuttosto, gettarsi immediatamente nel mondo del lavoro, umile e povero, e lì, solo lì, imparare tutto quello che c'è da imparare. La strategia della scolarizzazione ad oltranza ‒ continua il Nostro ‒ ha già fatto guai nel nord Africa (evidentemente la democrazia, laddove si presenta sotto il segno della rivolta, non può che essere un disastro), mentre da noi provoca un «galleggiamento» ozioso e irresponsabile sulle spalle di nonni e genitori. Dopo anni di sostegno alla riforma del 3+2 l'intellettualità italiana che conta se la prende con le inutili triennali, stigmatizzando i precari, inadatti al mercato del lavoro. Incredibile. Superfluo aggiungere che nella riscoperta apologetica degli Istituti tecnici è sottinteso il disprezzo per le scienze umane, per quelle politiche, per la filosofia (chissà se almeno le scienze sociali sono importanti per De Rita?).

Non sono bastati i tagli che hanno distrutto l'università e la scuola, non sono state sufficienti le riforme gelminiane. La grande crociata contro il general intellect procede senza sosta: c'è bisogno di una continua umiliazione delle giovani generazioni, bisogna insultare chi ancora pensa che formazione e mobilità sociali funzionino assieme, bisogna distruggere il '68, anche solo il vago ricordo della scolarizzazione di massa. I primi risultati, d'altronde, sono già visibili, la riduzione del 9 % in tre anni delle iscrizioni all'università parla chiaro, chiarissimo. Non basta la precarietà come orizzonte inaggirabile, c'è bisogno di un'eccedenza di senso e di motivazione: sono uno spreco (e dunque devono morire trafitti dal senso di colpa) tutti coloro che studiano cose che non servono.

Allora, con un po' di odio, sano, vale la pena rovesciare la domanda: quali sono i saperi che servono in Italia? quali sono le imprese in cui si investe in innovazione e ricerca? quali sono le caratteristiche del mercato del lavoro nel Belpaese? esiste un mercato delle competenze? E ancora (domanderebbe il floridiano tiepido): come si esce dalla crisi senza investire in conoscenza e in innovazione? Quando si fanno queste domande il fondatore del Censis tace, il capitale, d'altronde, non ha mai colpe. Bisognerebbe spiegare perché la Germania cresce e l'Italia no, ma su questo il sociologo di regime, come l'economista, tacciono. Il capitalismo italiano fa schifo, è provinciale, bigotto e privo di prospettive? colpa dei giovani. Il welfare non c'è? colpa dei vecchi che hanno tolto ai giovani e poi colpa dei giovani, perché non fanno fuori la Fiom.

Ma noi non siamo floridiani e sappiamo che il declassamento della forza-lavoro qualificata, il blocco della mobilità sociale, l'intreccio tra liberismo, corruzione e autoritarismo, costituiscono un processo che non si discosta dal «divenire rendita del profitto» e dalla dinamica di rifeudalizzazione con cui il capitale cerca di proteggersi dal baratro della Grande depressione. Per questo i giovani tunisini ed egiziani e la loro rivolta per la democrazia raccontano una storia che riguarda Roma, Londra, Parigi. Per questo c'è stato il 14 dicembre. E su questo bisogna intendersi: il 14 dicembre e il tumulto dello scorso autunno sono stati un fenomeno collettivo di veggenza, ancora, un'anticipazione. Caro De Rita, caro Tremonti, il welfare familiare di buona tradizione italica sta per terminare, così come si assottigliano i risparmi e non si sa bene chi continuerà a pagare i mutui, le prime scosse telluriche hanno già lasciato il segno, ne arriveranno ancora altre, ancora più forti e non ci saranno argini utili. Non è che l'inizio, e il nostro odio sarà impeccabile.

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