La
fase storica in corso ci mette di fronte ad un dato di fatto:
l'esistenza delle donne e degli uomini, quella dell'ecosistema
complessivamente inteso, sono direttamente intersecate con la
tecnologia. Protesi, macchine, biotecnologie sono elementi della vita
quotidiana. Come dice bene Rosi Braidotti nel suo ultimo lavoro, Il
postumano. La vita oltre l'individuo, oltre la specie, oltre la morte, «tutto questo ha
cancellato la frontiera tra ciò che è umano e ciò che non lo è»,
palesando come le fondamenta dell'umanità non siano naturali e come
non si possano scindere natura e cultura.
Umano,
Soggetto, Umanesimo
I secoli imperniati intorno al discorso dominante dell'umano e del soggetto unitario-universale, caldeggiato dalle correnti egemoniche della filosofia occidentale, costituiscono epoche che hanno visto l'istituzione di un soggetto che, astraendosi dai corpi e disincarnandosi, non poteva che aggettivarsi con connotati precisi per quanto assolutizzati: maschio, bianco, propietario, occidentale. L'Umano e quindi la sua declinazione storicamente costruita di genere in “la Donna” e “l'Uomo”, come da anni suggerisce Judith Butler e in quest'ultima sua pubblicazione ci ricorda ancora una volta Braidotti, è una convenzione normativa con un forte potere di selezione, esclusione e discriminazione, formandosi con la cronica individuazione del dis-umano. Di qui un antropocentrismo, la centralità di quel soggetto umano dominante con la polarizzazione di ogni alterità come oggetto da subordinare o da marginalizzare, quindi il paradigma della sopraffazione come strumento di accumulazione.
Ogni
teoria critica che abbia provato in qualche modo a mettere in
discussione quest'ordine del discorso dominante e/o le sue forme
politiche ma rimanendo nella prospettiva di un altro umanesimo, è
rimasta chiusa – dal punto di vista di chi scrive – nella gabbia
dell'universalismo, terreno foriero anche “da sinistra” di tante
mostruosità della storia.
Chi
nel corso dell'ultimo trentennio novecentesco ha invece sferrato
efficacemente un attacco al dominio discorsivo ed economico-politico,
lo ha fatto – secondo chi scrive – partendo dalla preliminare
critica all'universalismo, al soggetto universale e unitario,
all'umano assolutizzato e biforcato negli altri due assoluti: “la
Donna” e “l'Uomo”.
Chi
ha assaltato il comando culturale del capitalismo con la forza di una
teoria che si fa immediatamente prassi, lo ha fatto svelando il nesso
fra umanesimo e centralità del profitto – proprio in virtù
dell'antropocentrismo di cui sopra – smentendo quell'opzione che
vede nel primo un'alternativa al paradigma individualistico. Qui si
pensa che chi ha centrato il bersaglio, insomma, sono state quelle
correnti di pensiero come il post-strutturalismo, come quel femminismo e
quell'oltre-femminismo che hanno declinato le intuizioni
post-strutturaliste accentuandone una prospettivsa sessuata, come quel
postcolonialismo che vi introduce la variabile della
razzializzazione, come quell'ecologismo radicale che non si è mai
limitato a tematizzare la salvaguardia degli habitat ma connette la
devastazione ambientale con i modelli di sviluppo e con i sistemi
etico-filosofici che li fondano.
Ovviamente
anche la teoria critica più efficace – sia essa
poststrutturalista, postacoloniale, femminista, queer,
ecologista-radicale – non è bastata per abbattere totalmente
l'ordine del discorso dominante e neppure le soggettività politiche
e i movimenti sociali alla cui ispirazione hanno contribuito.
Tuttavia si è aperto un rapporto conflittuale.
Nel
frattempo il meccanismo complesso di relazione tra la circolazione di
saperi interdisciplinari e il sistema neocapitalistico che tende a
sussumerli, riuscendoci spesso, hanno messo nuovi dispositivi
tecnologici e culturali nelle mani di quel soggetto antropocentrico
ed auto-assolutizzato di cui sopra, producendo una dinamica che: da
un lato ha costruito la sua apoteosi, il trionfo di un Umano che può
tutto perché si potenzia a tal punto di estensioni tecnologiche,
frutto della sua stessa razionalità scientifica e tecnica, che
perfeziona la sua capacità di dominio sull'ambiente circostante a
partire dalla biosfera arrivando a meccanismi di estrazione
di plusvalore dalla zoe (la vita delle speci oltre gli individui e i
gruppi) dopo averlo già fatto del tutto col bios (le forme di vita
sociali); ma dall'altro una dimensione che rende insufficiente la
categoria stessa di Umano.
Dall'umano
al postumano: spazi per un postumanesimo
Come spiega bene la Braidotti, riprendendo il discorso da precedenti studi di filosofi dell'epistemologia e della scienza portandolo però sul piano politico, oggi si parla di un'epoca postumana perché il concetto stesso di umano è esploso per l'ibridazione con quelle stesse tecnologie che l'umano utilizza per lanciarsi alla conquista perpetua dell'altro.
Per
chi intende il lavoro teorico come strumento di ricerca per una
prassi rivoluzionaria, la domanda da porsi potrebbe essere: partendo
da un approccio critico verso ogni forma di umanesimo e di
universalismo, per arrivare a mettere in discussione la narrazione
capitalistica e colpire i capitali, che spazi offre la dimensione
postumana?
Dal
punto di vista di chi scrive, se ovviamente bisogna escludere
qualsiasi nostalgia neoumanista, è impensabile pure la lettura
euforistica dell'onda postumana come volano di liberazione. Se non si
creano punti di resistenza, se non si crea conflitto, non c'è
liberazione dallo sfruttamento del lavoro e della vita, dalle
colonizzazioni e dalle razializzazioni, dai sessismi, dalle
devastazioni ambientali, dal controllo sociale e dalla repressione
del dissenso, in una parola dal comando capitalistico. Non bisogna
smarrire questa traccia come non bisogna sottovalutare che: la
condizione postumana è frutto di un Umano diventato troppo Umano, di
un umano che collassa su se tesso ma esprimendo tutta la sua potenza
subordinante; la dimensione postumana vede in sé comunque grandi
spazi di estrazione del plusvalore da parte dei dispositivi di
comando ed accumulazione di profitto, come ci spiega Melinda Cooper
in una delle sue ultime pubblicazioni(La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo). Insomma l'epoca postumana non
è immediatamente un'epoca post-capitalistica.
Ciò
che invece rende interessante la fase postumana che si apre, sono i
larghi margini di contraddizione intrinseca e quindi le linee di fuga
che si danno per le eccedenze, per prospettive conflittuali. Qui entra
in campo la questione della soggettività e dello slancio
trasformativo che può darsi verso lo stato di cose vigenti.
La
scommessa della soggettività postumanista e della sua proiezione
rivoluzionaria
Assunto quale terreno di sperimentazione quello di un postumanesino come superamento dell'umanesimo ma non come esaltazione acritica della condizione postumana, la partita si sposta nel campo di forze in cui nella reciprocità dei poteri si produce soggettività. È ovvio che i dispositivi governamentali e biopolitici delle forze dominanti tendono a forgiare le soggettività ma le singolarità e le collettività non restano inermi, in ogni epoca si sono sviluppati punti di resistenza in tal senso. Da anticapitalisti, attivisti antifascisti, corpi mobilitati per sconfiggere il sessismo, reti impegnate nelle battaglie no_border e antirazziste, comunità autorganizzate che lottano per l'autonomia e l'autodeterminazione de* singol*, movimenti sociali costituenti che puntano alla costruzione di una società fondata sul comune rispetto a quella della democrazia liberale, a quale produzione di soggettività dovremmo tendere, intendendo ovviamente questa non come qualcosa a cui si arriva e si da per compiuta ma come costante processo di soggettivazione?
Nel
volume della Braidotti si possono trovare a tal proposito spunti
sicuramente interessanti.
Ella
ci parla di una soggettività
relazionale e determinata nella e dalla molteplicità, contrapposta
allo sradicamento e allo spaesamento prodotti dalle necropolitiche
neoliberali, una soggettività non-unitaria, nomade e che mira a
posizionarsi in maniera decentrata nell’ecosistema e che, proprio a
partire da questa autopercezione non più privilegiata, genererà
saperi e punterà tutto sulla relazionalità con l'altro, con altre
singolarità simili così come con l'ambiente. Chi scrive ritiene
necessario aggiungere e specificare: una soggettività che parte
dalla presa d'atto della propria condizione posutmana, si dota di una
prospettiva materialista e decostruisce tutta la normazione
dell'umano a partire dal primi processi di individuazione, le
costruzioni sociali del genere e della razza (il cui fondamento
biologico con la crisi dell'Umano perdono ogni praticabilità) –
senza con ciò sotto-valorizzare le differenze e le specificità dei
corpi sessuati e situati – per arrivare agli spazi di condivisione
tra singolarità; dunque una soggettività che mentre si produce,
condivide progetti sociali con altre soggettività e si lancia
immediatamente alla trasformazione dello stato di cose vigenti,
rivendicando nell'immediato diritti nella prospettiva di un futuro rivoluzionato.
Se, per quanto riguarda le traiettorie di produzione della soggettività su cui muoversi,
chi scrive trae stimoli da quel che ci offre la Braidotti pur
sentendo la necessità di ampliare e specificare, c'è invece da
problematizzare molto sulle forme di azione pratica e di organizzazione
politica per agire dentro i rapporti di potere.
Conflittualità
e relazione: una contrapposizione obbligatoria?
La produzione di soggettività “dal basso”, ovvero un processo costante di contro-soggettivazione ed alter-soggettivazione, e il contemporaneo slancio trasformativo della società, come si può dare se non attraverso dinamiche conflittuali che prendano forza proprio dalla ribellione dei corpi?
Partendo
dal presupposto per il quale «le condizioni per un rinnovamento
etico e politico non possono essere ricavate dal contesto prossimo o
dallo stato attuale delle cose» e per il quale queste «devono essere
generate affermativamente e creativamente attraverso progetti
orientati alla costituzione di futuri possibili», quindi mettendosi
su un crinale tutto «profetico» come ella stessa afferma, la
Braidotti non tematizza due elementi fondamentali e di prospettiva:
la necessità di conquistare diritti hic et nunc per spianare strade
progettuali verso futuri di cui riappropriarsi; l'urgenza data dallo
scempio determinato finora dalle politiche neoliberali e dalle
economie neoliberiste e quindi la necessità di investire i corpi con
la loro forza in dinamiche contemporaneamente di resistenza e
costituenti per un nuovo modello di sviluppo.
Quando
Braidotti parla di «pratiche quotidiane d'interconnessione con
l'alterità» sembra riferirsi all'esclusività di quelle che vengono
definite solitamente buone pratiche di vita quotidiana, singolarmente
e in collettività. Lungi dal pensare che questo tipo di orizzonte
vada disertato, qui si avverte l'insufficienza però di questo
registro se non intrecciato con quello dell'uso sociale della forza, con
quello che nelle pratiche e nella narrazione supera la dicotomia
preconcetta violenza/non-violenza.
Il
pensiero femminista, di cui Braidotti è tra le maggiori animatrici,
ha spesso teorizzato giustamente il valore politico della relazione
ma il problema è che lo ha fatto polarizzandolo rispetto all'investimento della forza nella lotta
dei corpi in movimento. Il motivo è sempre stata la tensione a
rifugire ogni codice maschile, come se l'uso della forza dei corpi
debba essere necessariamente performativa e forgiata su un modello
maschile, come se l'idea di un conflitto - pure multiplo e fuori da
qualsiasi ottica dialettica ma determinato - che trova come uno dei
luoghi il corpo, passi automaticamente per un codice machista, uno
spettacolo in cui le forze dominanti e chi vi si oppone debbano fare
a gara per dimostrare chi è più maschio.
La
spinta costituente, così come l'approccio progettuale e non meramente
antagonistico, sono presupposti fondamentali ma non può essere
concretata solo nella ricerca pacificata della sostenibilità. La
spinta costituente e progettuale ha il bisogno di incarnarsi anche
attraverso corpi insorgenti, corpi che vengono categorizzati
dall'ordine del discorso vigente nel genere maschile, in quello
femminile, in quello omo/bi-sessuale, in quello transessuale, corpi
che si liberano ed esplodono in eccedenze.
Un
ambito in cui questo discorso trova un riscontro è quello di alcune
lotte per i commons, in particolare per quel common che si
caratterizza come un sistema complesso e complessivo, il territorio,
insieme di risorse naturali, storico-monumentali, relazionali, luogo
dove l'indivisibilità tra natura e cultura mostra tutta la sua
pregnanza. Nei movimenti in difesa e in riconquista collettiva del
territorio così inteso, quando il modello di sviluppo vi impatta
saccheggiando e devastando, si crea un linguaggio politico che spesso
si proietta in maniera potente oltre quello del pubblico –
universale, fortemente virilizzato, costituito, solo apparentemente
democratico – perché c'è immediatamente la tendenza a ricreare
istituzione dal basso, ogni corpo a prescindere dalla
rappresentazione sociale del genere si investe con tutta la propria
forza e tutta la propria specificità nella resistenza e nella
costituzione, partendo dalla necessità di “presidiare” e non c'è
presidio senza fisicità.
Ovviamente
tutti gli spunti che si aggiungono in questa sede possono solo
contribuire ad aprire dibattito,a problematizzare ma nella volontà
di praticare. Nelle prospettive del discorso sul postumano, c'è
bisogno di avviare un filone di ragionamento su come una teoria
critica postumanista possa far interagire pratiche di nuove relazioni
e investimento dei corpi tenendole dentro un orizzonte che non
escluda e stigmatizzi il polemos.