Sovvertire il margine: cosa ci lascia bell hooks

17 / 12 / 2021

La morte di bell hooks infierisce su una ferita ancora aperta e mai guarita del nostro tempo: quella del suprematismo bianco, del patriarcato, del capitalismo, negli Stati Uniti come in Europa, come in qualsiasi luogo in cui vigano sistemi di violenza ed oppressione. Filosofa e attivista, produttrice prolifica di riflessioni articolate a partire dal suo vissuto e dall’esperienza quotidiana, bell hooks si distingue per la sua capacità di far emergere con semplicità e chiarezza la complessità dei sistemi di oppressione e il loro intrecciarsi sulla pelle di soggettività escluse dal canone del pensiero politico e critico. Eppure, sarebbe un errore delinearne il pensiero entro confini di categorie prestabilite. Proprio come la complessità dell’esistenza, non vi è argomento su cui bell hooks non abbia posato lo sguardo, dalla politica istituzionale alla critica cinematografica, alle espressioni culturali di ogni calibro e sorta, dalla sessualità alle relazioni tra generi, dalla poesia alla narrativa per bambini, bell hooks prende spunto da qualsiasi espressione creativa e sociale dell’esistente per riflettere su ciò che è, decostruendone alla fondamenta l’espressione propria dei sistemi di controllo, oppressione e sfruttamento intrinsecamente radicati nell’immaginario individuale e collettivo.

Bell hooks viene ricordata soprattutto per aver coniato il termine white supremacist imperialist capitalist patriarchy (patriarcato capitalista, suprematista ed imperialista), un neologismo che potrebbe riassumere quel corpo teorico e letterario di oltre 40 pubblicazioni uscite tra il 1978 e il 2013. Partendo da una prospettiva situata -- quella del margine non subito ma voluto, cercato e rivendicato --  bell hooks ha evidenziato la natura intersezionale dei sistemi di oppressione, cioè il modo che essi hanno di intrecciarsi nella costruzione dell’oppressione sistemica dei corpi razzializzati e sessualizzati entro le linee dello sfruttamento sociale, economico, politico e riproduttivo. Eppure, le sue riflessioni, molto lontane dal puro esercizio teorico, riescono a delineare la complessità delle forme di sfruttamento in termini reali e concreti, partendo dall’analisi di costellazioni di spunti ed esempi attinti dalla quotidianità, dalla banalità della vita normalissima.

Una prospettiva situata, la sua, che rifugge dall’intorpidimento classista e borghese di un’intellettuale arroccata entro i muri delle accademie. Hooks racconta la violenza –le violenze—quotidiane cui sono sottoposti i corpi razzializzati dei non-bianchi, i corpi genderizzati e sessualizzati delle donne e delle soggettività non-conformi, e il modo in cui tali violenze siano da concepirsi non solamente come plateale abuso, ma come la costante esposizione alla codificazione e al controllo proprie dell’oggettificazione operata dal Potere; sia esso partenente alla sfera pubblica (istituzionale, sociale, culturale) e a quella dell’esperienza individuale e privata (domestico, interpersonale, estetico, creativo, rappresentativo).

Quella che bell hooks soprattutto rivendica è una teoria del margine, che parte dal margine, non più come luogo di sopruso ma di riappropriazione, di auto-determinazione, di resistenza. Una teoria che abbia una funzione trasformativa dell’individuo e della realtà, un esercizio educativo-pedagogico scaturito non da un sapere gerarchico ma dal confronto costante, dal pensiero critico, dall’ascolto, dalla relazione interdipendente e anche conflittuale se necessario tra le prospettive di realtà situate entro confini che paiono altrimenti sempre irrimediabilmente netti, separati, lontani, anche all’interno del proprio sè. In questo, bell hooks si riferisce ovviamente ad una prospettiva costruita partendo dai e dentro margini, in netto contrasto con quel Centro generatore di violenza razziale, sessuale, capitalista, coloniale, imperialista. Un centro con cui non può esserci confronto ma solo smantellamento.

L’originalità del pensiero di bell hooks parte proprio da quella prospettiva situata che è anche fortemente intima ed intimista, radicata nel profondo del suo essere. Hooks parla infatti della teoria, della riflessione e produzione teorica, come un luogo salvifico nella ricerca di fuoriuscita dal dolore, una riflessione che parte dal dolore non per fuggirlo ma per comprenderlo. Il dolore di cui parla hooks è quello dell’esclusione, della violenza machista, della povertà, del razzismo, ma la grammatica emotiva che dispiega entro coordinate di analisi storica, sociale e culturale aprono alla possibilità di radicare il proprio pensiero nel profondo dell’essere, muovendo agilmente tra piani che vanno dall’individuale al filosofico al politico. Una prospettiva che costruisce attraverso il confronto continuo con la realtà e le esperienze di alterità entro punti di contatto permeabili, contaminabili e contaminanti. Ciò che hooks rivendica è la riappropriazione afro-americana nel comprendersi e costituirsi come soggettività complessa, individuale, potenzialmente collettiva, potenzialmente radicale. Uscire dal dolore come pratica di salvezza e liberazione dal suprematismo bianco che ha plasmato e annichilito i corpi neri nella violenza della schiavitù, della segregazione e del razzismo, non perché ne volesse la morte ma piuttosto il totale annichilimento. Pensare ed agire come soggettività nuove ed altre, fuori dalle logiche che plasmano quotidianamente coscienze asservite al capitale, alla violenza, al Potere.

La morte di bell hooks e il suo lascito evidenziano dunque, forse per la prima volta davvero, il vuoto incolmabile rappresentato da un corpo teorico rivoluzionario, che per molti versi è ancora taciuto e poco conosciuto. Per chi vive all’interno dei movimenti, salutare bell hooks a pochi giorni dalla sua morte significa porsi inevitabilmente di fronte alla sfida che questo confronto rappresenta per il nostro pensare ed agire politico. Perché la sua memoria non può essere omaggio asettico; anzi, apre necessariamente la porta a quelle domande cui lei stessa ha cercato di rispondere nella continua stesura del suo pensiero.