Stare a Mehesser e sentirsi a casa

In questi giorni stiamo dormendo a due chilometri dalla parte di Kobane controllata dall’Isis. Tra noi e loro ci separa solo una collinetta, presidiata dall’esercito turco, e una rete con filo spinato. Eppure ci sentiamo a casa.

27 / 11 / 2014

Ci sentiamo a casa qui a Mehesser, perché abbiamo trovato degli elementi che ci ricordano i tendoni del Presidio Permanente No Dal Molin: un campo di terra battuta, dove passare le notti al freddo attorno a due fuochi; l’immancabile tè caldo, il cay; il ruolo molto importante delle donne con il loro coraggio. 

Attorno al focolare tra un canto di lotta e l’altro, è l’occasione migliore per provare a far conoscenza e scambiare qualche parola con il tuo vicino. Proprio come nelle interminabili serate attorno al fuoco di Ponte Marchese. Quando, poi, ci parlano di agricoltura naturale senza pesticidi, ci sembra di essere alla riunione del Gas No Dal Molin.

Respiriamo un forte senso di comunità. Una comunità degna e in lotta. Ci troviamo in un piccolo villaggio in mezzo al nulla, basato su piccola agricoltura di sussistenza, eppure a tutti viene garantito da mangiare. La colazione e il pranzo vengono distribuiti fuori dalla moschea e in una piccola piazzetta. 

Quando gli abitanti del villaggio ti raccontano l’esperienza del Rojava, una delle parole che ritorna più spesso è “etica”, tanto da essere insegnata da subito nelle scuole. Tanto che arrivano a dirti: “a Kobane abbiamo imparato l’etica, anche in guerra. Noi i morti dell’Isis li seppelliamo, loro invece tagliano la testa e le mani e fanno sparire i corpi”.

Ci sentiamo a casa grazie anche all’encomiabile senso di ospitalità curdo. Non è un caso che la parola che pronunciamo di più sia “spas”, ossia “grazie”.
Eppure, nonostante non ci facciano mancare nulla, sono loro a ringraziarci per la nostra presenza.

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