Stop capitalism. End the Climate Crisis

26 / 9 / 2014

“The health of our planet is dependent on the resilience of both our ecosystems and our built environment.”

Queste le dichiarazioni della fondazione sostenuta da una delle più grandi famiglie industriali statunitensi durante i giorni del Climate Summit. La salute del pianeta dipende dalla resilienza, capacità di autoripararsi, di entrambi i nostri ecosistemi, quello naturale e quello costruito dall’uomo. Lo dicono i Rockefeller, quelli che hanno ispirato il nome dell’acerrimo nemico del multimiliardario Paperon de’ Paperoni. La dinastia della Standard Oil (classe 1870), da cui si sono sviluppate le compagnie petrolifere Exxon (prima Esso) Chevron, BP, ecc.

Questo per evidenziare come la politica del “greenwashing” sia ancora estremamente in auge così come la convinzione che il modello produttivo capitalista possa essere reso “sostenibile”. Lo stesso termine “sostenibilità” è da ritenere, almeno per come è utilizzato dalle istituzioni, arcaico. Definito nel 1992, quindi più di vent’anni fa, dall’Assemblea delle Nazioni Unite come passaggio, prettamente formale, da quella che era la cosiddetta “compatibilità ambientale”. Quindi del tutto funzionale al modello di sviluppo e di sfruttamento capitalistico.

Gli stessi summit degli ultimi anni hanno prodotto un nulla di fatto dalla parte delle istituzioni governative, ma hanno avuto la capacità di fare crescere il discorso all’interno degli attivisti che si riunivano per contestarli o per chiedere cambiamenti reali. Un discorso che non si può ridurre al settore “ecologico”. La #PeopleClimateMarch che a NY ha visto la partecipazione di più di 400.000 persone ha portato con sé anche la denuncia dell’occupazione da parte delle multinazionali del Summit ONU sul clima, chiedendo un cambio radicale del sistema economico piuttosto che interventi volontari basati sul mercato. Il pay off  di #Floodwallstreet, che ha partecipato alla marcia e si è mobilitato anche nei giorni successivi, è emblematico “Stop capitalism. End the Climate Crisis”.

Le parole d’ordine “giustizia climatica” devono essere pensate insieme a quelle di “giustizia sociale”.

Giustizia sociale che non può non mettere in campo la critica radicale al modello di sviluppo dominante, alle situazioni di sfruttamento lavorativo e dei territori, alla finanziarizzazione e speculazione dei beni, delle risorse, delle materie prime e dei cibi.

Come non può non tener conto dell’accrescimento esponenziale del flussi migratori causati dall’impoverimento ambientale dei territori o da catastrofi naturali, che nella maggioranza dei casi avvengono e si ripercuotono su popolazioni che contribuiscono in maniera irrisoria al deterioramento del clima. Tenendo in considerazione l’enorme numero, attuale e futuro, di evacuati per cause ecologiche, il XXI secolo potrebbe essere definito come il “Secolo dei rifugiati ambientali”, nonostante il termine non sia ancora riconosciuto dalle leggi internazionali.

Le lotte “locali” che in questi anni hanno caratterizzato il paese si sono spinte verso il superamento della questione “ecologica” tout-court ampliando il loro discorso da un legittimo “no” alla volontà di un cambiamento radicale del modello di sviluppo, che critica lo sfruttamento lavorativo e la pressante precarizzazione, la cementificazione e la distruzione ambientale, la produzione energetica fossile come lo sfregio dell’avanzata alternativa intesa comunque all’interno di processi di speculazione e abuso. Nonché la volontà di decisione nel e del proprio territorio, non intesa come un'attitudine nimby bensì come espressione di democrazia.

La campagna #noexpo2015, che vedrà impegnati i movimenti da qui al maggio 2015, è un esempio paradigmatico di questa direzione in quanto contiene al suo interno tutti questi aspetti di critica e radicale opposizione. Mentre il claim istituzionale, come da copione, recita “Nutrire il pianeta, Energia per la vita”, le parole d’ordine della campagna contro la Grande Esposizione sono eloquenti: “No Expo, Debito Cemento Precarietà”.

Come scrive Naomi Klein nel suo ultimo lavoro “This changes everything”, uscito qualche giorno prima della marcia e del summit, non si può più operare pensando di “riconciliare il clima e il capitalismo”.