Storie dal campo di Patrasso. Ordinaria violenza dall'Afghanistan all'Italia

12 / 2 / 2009

Quelle che seguono solo alcune delle decine di storie raccolte all’interno del campo profughi di Patrasso dalla delegazione della veneziana rete di associazioni Tuttidirittiumanipertutti. Un resoconto di Alessandra Sciurba per il Progetto Melting Pot Europa.
Dall’Afghanistan all’Italia, queste voci raccontano di un percorso di violenze subite senza interruzione. Molti sono minorenni, alcuni sono bambini, tutti sono profughi. Sono persone che rientrano a pieno titolo nella definizione di rifugiato sancita dalla Convenzione di Ginevra del ’51. Persone che avrebbero diritto a ricevere accoglienza e protezione in Europa. Sono gli ‘effetti collaterali’ della scelta e poi del fallimento di una guerra voluta da tutti i paesi, compresa l’Italia, che oggi chiudono loro la porta in faccia. L’Iran e la Turchia li arrestano e li rimpatriano. La Grecia cerca di espellerli verso la Turchia. L’Italia li respinge in Grecia senza alcun presupposto giuridico valido e con delle modalità disumane. Oltre che illegali. E in ognuno di questi luoghi loro subiscono violenza fisica e privazione della libertà personale senza mai incontrare un interprete o del personale civile, qualcuno, insomma, che non sia lì per dirgli che sono fuori posto e per cercare di farli scomparire. Persino il personale delle navi greche che viaggiano da Patrasso ai porti dell’Adriatico, si sente autorizzato a picchiarli sistematicamente quando, stremati dopo giorni di viaggio in condizioni disumane e ormai chiusi dentro bagni o cabine attrezzi della nave che li riporta indietro, questi ragazzi si permettono di chiedere acqua e cibo.
Alcune di queste cose sono state raccontate il 12 febbraio alla giornata che la comunità afghana di Venezia ha organizzato in memoria di Zaher Rezai.

1 - Salah ha 15 anni, ed è uno dei profughi di Patrasso. Ha lasciato l’Afghanistan dopo che il padre è stato ucciso dalle milizie talebane in quanto esponente del partito di riferimento dell’etnia Hazara. È scappato con il resto della famiglia in Iran, dove ha sempre lavorato in nero senza mai riuscire a regolarizzarsi o a chiedere asilo. Da lì e dovuto fuggire in Grecia, dopo che da qualche mese il governo iraniano ha decretato la caccia agli afghani catturandone e rimpatriandone con la forza più di 10.000. Nell’ottobre scorso Salah ha cercato allora riparo in Turchia, dove è rimasto nascosto sottoterra per settimane. Anche lì non si riesce a chiedere asilo politico. Anche da lì rimpatriano gli afghani. Per questo raggiunge Smirne, per questo cerca di imbarcarsi di nascosto verso la Grecia, come fanno centinaia di migranti su barchette improvvisate che partono di continuo per attraversare il piccolo tratto di mare che separa la costa turca dalle isole elleniche. Per due volte Salah viene raggiunto e catturato dalla polizia turca. Per due volte viene respinto indietro da quella greca. Alla terza invece ce la fa, e raggiunge Lesbo. Dopo essere rimasto nascosto sule montagne dell’isola trova il modo di arrivare ad Atene e lì gli si impone una scelta: provare a fermarsi o continuare il viaggio. In Grecia non danno l’asilo politico, non ti permettono neanche di chiederlo davvero.
Salah non ha sicuramente letto il rapporto appena pubblicato dalla Commissione di Strasburgo in visita in Grecia per valutare lo stato dei diritti umani in quel paese. Lì le difficoltà incontrate dai profughi nella Repubblica ellenica sono scritte nero su bianco. Salah non ha bisogno di leggerlo, lo sa già, come lo sanno tutti i profughi che attraversano la Grecia, che per vedersi riconoscere una qualche forma di protezione internazionale, bisogna cercare altrove. Per questo Salah raggiunge Patrasso, che per quelli come lui è sostanzialmente la frontiera de localizzata dello Stato italiano. Al campo vicino al porto tutto ruota intorno al sogno e alla sfida di raggiungerla, di farcela. È il primo febbraio del 2009, pochi giorni fa, quando Salah riesce a vincere la quotidiana lotta contro i militari, i controlli, e i camionisti dentro il porto di Patrasso, e si nasconde , con altri cinque compagni, dentro la cella frigorifera di un tir in viaggio verso Venezia. Quando la nave che lo trasporta raggiunge la costa italiana Salah è quasi assiderato. Quando la polizia italiana li trova lui è già svenuto. Ha perso sangue dal naso e dalla bocca. Riprende i sensi mentre viene trasportato in una stanza da qualche parte dentro il porto di Venezia. Lì non c’è nessun medico a controllare il suo stato di salute ma, soprattutto, non c’è nessun interprete che possa aiutarlo a chiedere asilo, a dire di essere minorenne (anche se questo, guardandolo, appare evidente), o che lo informi sui suoi diritti. A Salah vengono invece fatti firmare due fogli completamente scritti in italiano, di cui lui non capisce assolutamente nulla. Ha paura di rifiutarsi, anche se vorrebbe. Poco dopo lui e i suoi amici vengono tutti portati a forza a bordo della stessa nave con cui erano arrivati, e rinchiusi dentro una cabina attrezzi. Hanno fame, troppa per restare in silenzio e per questo, quasi subito, iniziano a gridare.
Salah ci racconta che a quel punto sono arrivati dei poliziotti italiani che li hanno colpiti per farli stare zitti. Ci indica il suo occhio nero, ferito e gonfio. Ci dice di essere stato preso a calci sulla pancia. Di essere svenuto di nuovo. Di essersi svegliato, qualche ora dopo, ormai di nuovo sulla rotta verso l’inferno di Patrasso.

2 – Mohammad ha un buco nero al posto dell’occhio destro. Glielo ha fatto una pallottola che gli ha attraversato la testa e gli ha leso i nervi del collo. Per questo adesso cammina male, trascinandosi sulla sua stampella, quasi ripiegato su se stesso. Lascia senza fiato sentire che ha solo 25 anni e poi guardarlo in viso. Chi lo ha deturpato e menomato per sempre è un comandante dei mujaheddin che nello stesso agguato ha anche ucciso suo padre. Mohammad è fuggito verso l’Iran pagando più degli altri per la sua condizione fisica, perché non ce la faceva a viaggiare reggendosi in piedi da solo. Anche lui resta in Iran solo il tempo di riuscire ad andarsene, terrorizzato dai rimpatri verso l’Afghanistan. Anche lui, quando arriva in Turchia, si nasconde sotto terra e ci rimane per mesi, senza mai vedere il sole. Paga ancora e raggiunge Smirne, ancora un po’ di più e riesce ad arrivare a Lesbo e poi ad Atene. È il maggio del 2008. Mohammed è troppo stanco per continuare. Dorme di fronte ad una chiesa per mesi, vive di elemosina. Nessuno lo accoglie, nessuno lo ascolta se prova a chiedere asilo. Decide di farsi forza e rimettersi in viaggio. Raggiunge Patrasso. si unisce anche lui al gioco insanguinato di provare a nascondersi sui tir al tramonto. Con più prudenza, certo, lui non può scappare dai ‘commandos’ in tuta militare che se ti prendono ti massacrano regolarmente. Ti rompono le gambe. Ti spezzano le braccia. Ti spaccano la testa. Una volta, lo scorso 18 gennaio, Mohammad, nonostante tutto, ce la fa. Un amico lo aiuta, riesce a nascondersi dentro un camion in partenza per Ancona. Quando arriva in Italia viene scoperto immediatamente dal personale addetto ai controlli portuali. Gli vengono legati i polsi. Viene chiuso dentro una cabina. Per tutta la durata della traversata a ritroso,nessuno viene mai a slegarlo, nessuno gli porta da mangiare o da bere. Quando arriva di nuovo a Patrasso la polizia lo sta aspettando. Lo prende a calci e a pugni, lo mette su un’altra nave e lo porta a Mitilene dove lo chiude in un centro di detenzione che a sentirlo descrivere quello di Lampedusa sembra un giardino fiorito. Viene picchiato ancora quando prova a rifiutarsi di firmare il suo foglio di espulsione che non comprende perché è scritto in greco e non c’è nessuno a tradurglielo.
In Italia come in Grecia, nessuno ad ascoltare la sua voce.
Mohamamd è tornato a Patrasso, vive al campo, mangia solo pane duro. Non può neppure lavorare in nero, come gli altri a volte riescono a fare. Ti guarda dritto in faccia, con l’unico occhio rimasto, come se chiedesse se può esistere, a tutto questo, una spiegazione possibile.

3 – Samir, nel gioco dei tir al tramonto, ha perso un dito. La polizia di Patrasso glielo ha fatto saltare via a manganellate. Un bravo avvocato lo ha convinto a denunciare, ad andare in televisione, a dire pubblicamente tutto. Pare che per il poliziotto che lo ha ridotto così non ci saranno conseguenze legali perché le autorità hanno risposto che è troppo difficile identificare chi sia stato tra i tanti. Strano, perché Samir lo sa descrivere perfettamente.

4 – Alì è un bambino Hazara di 12 anni. Lui e la sua famiglia sono scappati dall’Afghanistan per sfuggire all’arruolamento forzato che le milizia talebane fanno di migliaia e migliaia di ragazzini, rastrellandoli casa per casa e strappandoli alle loro madri. Nel 2006 i talebani avevano già ucciso suo padre che si era rifiutato di seguirli sulle montagne. La prima tappa è l’Iran, dove rimangono per un po’ senza riuscire regolarizzare la loro posizione. Hanno paura anche loro dei rimpatri in Afghanistan e la madre convince Alì e suo fratello maggiore di 16 anni a proseguire ancora, a provare a salvarsi.
Da quale orrore deve fuggire una madre che chiede ai suoi due figli quasi bambini di attraversare da soli le frontiere di due paesi e di mettere a rischio la loro vita pur di salvarla…
Alla frontiera tra Iran e Turchia una banda di criminali curdi rapisce il fratello di Alì. Lui resta solo a correre velocissimo, a cercare di salvarsi. Una famiglia afghana lo incontra stravolto e in lacrime. Anche loro stanno cercando di attraversare le frontiera e lo portano con sé. Con loro raggiunge Istanbul ma non ha più soldi per continuare il viaggio e per nascondersi come gli altri. Per questo diventa il piccolo schiavo di un contrabbandiere in una delle case sotterranee dove si nascondono i profughi in transito. Lavora per mesi per guadagnarsi il passaggio fino a Smirne e poi sulla barchetta verso la Grecia. Finalmente ci riesce e arriva a Mitilene. Ma neppure lì questo piccolo, che allora aveva ancora undici anni, trova accoglienza. Viene detenuto nel centro di detenzione dove la polizia sembra avere sempre voglia di menare le mani. Lui viene picchiato quando cerca di aprire una finestra della sala in cui sono rinchiusi in 150 persone, perché era estate e faceva caldo da soffocare. Rimane lì per 27 giorni, senza neppure un gabinetto funzionante. Dopo questo periodo gli viene consegnato un foglio di espulsione in cui gli si dice si lasciare il territorio dello Stato. Lui non può sapere quello che c’è scritto perché è solo in greco e nessuno glielo traduce. Ma anche se potesse leggerlo e volesse obbedire, dove potrebbe andare?

Alì prosegue, segue il cammino degli altri, arriva a Patrasso, inizia a capire come funziona il gioco dei tir. Ha imparato sulla sua pelle che in Grecia non ti aiuta nessuno, che non c’è altra scelta che andarsene. È metà gennaio quando riesce a nascondersi, con altri due minori, dentro un camion vuoto in partenza dal porto di Patrasso verso Ancona. I ragazzini sono piccoli, si addormentano. Vengono risvegliati dalla polizia italiana e condotti in una stanza all’interno del porto. Da qui vengono ritrasferiti dentro la nave senza avere incontrato nessuno, parlato con nessuno. Alì, comunque, ha paura di parlare. Racconta che quando uno dei suoi compagni ci prova a dire in farsi che sono minorenni, che vogliono chiedere asilo, viene picchiato da un poliziotto con un pugno nello sterno. Ad Alì non viene fatto firmare alcun foglio prima di rinchiuderlo dentro un bagno della nave, e lasciarlo lì fino a Patrasso.

5 – Rahmat ha 19 anni. È sfuggito alla strage di Behsud dell’estate del 2008, quando la milizia talebana dei Kuchi, dopo avere incendiato le case e ucciso gli animali, ha letteralmente fatto a pezzi 55 persone di cui la maggior parte erano donne e bambine. Rahmat è scappato dopo avere perso tutto. Anche quasi ogni membro della sua famiglia. Quelli che gli restano fuggono con lui in Iran ma vengono immediatamente catturati e rimpatriati e lui oggi non ha più notizie di loro. Terrorizzato arriva in Turchia e da lì, dopo essere stato arrestato due volte, riesce ad arrivare a Patmos, in Grecia. Raggiunge Atene dove riceve solo un foglio di espulsione che nessuno gli traduce. Non c’è modo di chiedere asilo, non resta anche a lui che tentare la via di Patrasso.
È al campo che Rahmat incontra Zaher e diventa suo amico. Gli piace tanto, anche se è così più giovane di lui, questo ragazzino malinconico e sempre gentile, che parla poco di sé e tanto dell’Afghanistan, del sogno di poterci tornare un giorno, quando arriverà al pace. ‘è speciale’ dice di lui Rahmat, parlando al presente. Poi si ricorda, però, e piange in silenzio.
Con Zaher andavano sempre insieme a giocare al tramonto al porto. Cercavano insieme di salire sui tir. Fuggivano insieme dai manganelli dei commandos. Guardavano insieme il mare, attraverso le sbarre della recinzione, sognando l’Italia.
L’8 dicembre del 2008 c’era anche Rahmat con Zaher a salire su quella nave della Anek lines. A dire il vero erano 6, ciascuno sotto un tir diverso. All’arrivo al porto di Venezia li scoprono subito tutti. Tutti tranne Zaher. Rahmat è felice quando vede il tir del suo amico uscire fuori dalla nave e poi dal porto, gli viene da ridere, anche se lo hanno appena catturato, perché Zaher ce l’ha fatta, perché almeno lui non tornerà più nell’inferno di Patrasso e per lui d’ora in avanti potrà andare solo meglio. È così contento, Rahmat, che quasi non si arrabbia quando lo portano in una stanza con dei poliziotti e gli legano le mani prima di riaccompagnarlo sulla nave. Quasi non si arrabbia quando nessuno risponde alle sue richieste pacate, nelle due frasi di inglese che ha imparato come le uniche importanti e dice: “I want a translator! I want to ask Asylum!”. Rahmat quella notte, chiuso dentro la cabina attrezzi della nave che ritorna verso Patrasso, sogna Zaher e sorride.
Tre giorni dopo, davanti alla piccola mosche a del campo, si legge un cartello che gli spezza il fiato in gola. Zaher è morto, a Mestre. Sopravvissuto a 8000 km di viaggio e ucciso dagli ultimi 8 km fuori dal porto di Venezia. Il 19 gennaio Rahmat viene catturato dalla polizia mentre si sta lavando nell’acqua del mare di fronte al campo, l’unica disponibile, anche se è inverno e fa freddo. Viene deportato in un centro di detenzione al confine con la Bulgaria, sperano di rimandarlo in Turchia, ma non ci riescono a dopo qualche settimana lo liberano.
Adesso che è tornato a Patrasso, Rahmat va sempre al porto a guardare quella nave dell’Anek Lines per pensare al suo amico, e si ricorda di quella notte in cui lui e Zaher, lì dentro, sopra il mare, hanno avuto tanta paura e hanno tanto sognato insieme.

Articolo pubblicato sul sito del Progetto Melting Pot Europa


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