Strage di Viareggio - «Continuiamo la nostra battaglia contro i manager di Stato»

Intervista a Riccardo Antonini, dell'Assemblea 29 giugno, dopo la sentenza di primo grado sulla strage ferroviaria di Viareggio

3 / 2 / 2017

Lo scorso 31 gennaio si è tenuto il processo di primo grado per la “strage di Viareggio”, un disastro ferroviario avvenuto il 29 giugno 2009 costato la vita a 32 persone e che ha visto decine di feriti, alcuni dei quali molto gravi. Il processo vedeva imputate 33 persone, tra cui gli allora vertici della holding Ferrovie dello Stato e delle sue controllate, e nove aziende, sia italiane che europee. Le pene inflitte variano dai 5 ai 9 anni e mezzo, ma sono state notevolmente ridotte rispetto alle richieste del Pubblico Ministero. Abbiamo intervistato in proposito Riccardo Antonini, dell’Assemblea 29 giugno, ferroviere licenziato da Mauro Moretti, ex amministratore delegato di FS ed imputato nel processo, proprio per essersi battuto a fianco dei familiari delle vittime. L’azienda ha ritenuto il suo impegno «un conflitto d’interesse» rispetto al proprio lavoro.

Dopo quasi sette anni è arrivata la sentenza di primo grado del Tribunale di Lucca per la strage di Viareggio.Da alcuni è stata vista come «occasione mancata», vista la forte riduzione delle condanne rispetto alle richieste del PM, da altri addirittura è stata definita una «sentenza populista», per citare le parole usate da Armando Dapote, avvocato di Mauro Moretti. Qual è il vostro commento?

Innanzitutto è necessario fare una precisazione sui tempi della sentenza: il collegio giudicante ha voluto accelerare i tempi per impedire che alcuni reati andassero in prescrizione. Il 31 gennaio rappresentava uno degli ultimi giorni utili perché, tra febbraio e marzo, reati come incendio colposo ed altri non sarebbero più stati giudicabili in sede processuale.

Il PM aveva chiesto più del doppio per Moretti, Elia, Margarita ed altri imputati meno “conosciuti”, ma quello che a noi interessa maggiormente è la “qualità della sentenza” e non tanto la quantità delle pene inflitte. È chiaro che gli imputati tenteranno tutte le strade per recuperare sia in Appello che in Cassazione (o in altre forme, come hanno già annunciato a suo tempo), e per questa ragione dovremmo continuare ancora di più nella mobilitazione e nella vigilanza.

Abbiamo già detto che si tratta di pene miti, se proporzionate a quanto accaduto il 29 giugno 2009, ma hanno l’importanza di aver colpito per la prima volta i vertici di un’azienda di Stato. Alle pene più grandi (9 anni e 9 anni e mezzo) sono stati condannati i dirigenti delle società europee coinvolte nella strage; pene leggermente inferiori (da 7 anni e mezzo a 5 anni) sono andate ai massimi dirigenti delle Ferrovie, sia della holding sia delle controllate (Rete Ferroviaria Italiana e Trenitalia). Per questa ragione abbiamo dato un giudizio positivo alla sentenza, in termini di “qualità”, perché era importante e non scontato che si accertassero fino in fondo le responsabilità di questi personaggi in una strage che, è bene ricordarlo, ha fatto 32 vittime, decine di feriti e gravi ustionati e provocato la distruzione di un intero quartiere.

Qual è stato a Viareggio il ruolo delle realtà sociali di base da un lato di intraprendere un percorso di verità e giustizia per quanto accaduto, dall’altro di rendere più “sopportabile” il dolore di un’intera comunità?

Subito dopo il 29 giugno io, insieme ad altri ferrovieri e cittadini di Viareggio, ci siamo da subito costituiti in “assemblea permanente”, dando vita all’Assemblea 29 giugno. Il nostro obiettivo è stato immediatamente quello di intraprendere una battaglia sulla sicurezza da un lato e sulla verità e la giustizia dall’altro. Nei mesi successivi l’Assemblea ha unito le sue forza con i familiari ed i parenti delle vittime che, dopo aver metabolizzato il dolore ed il lutto o, in alcuni casi, dopo essere usciti dall’ospedale, si sono costituiti in associazione, a cui è stato dato il nome “Il mondo che vorrei”. Il presidente dell’Associazione, Marco Piagentini, ustionato al 90%, ha perso durante la strage la moglie e due figli piccoli, ma ha sempre trovato la forza di lottare al nostro fianco.

In questi anni abbiamo fatto tantissime iniziative, andando anche tre volte a Bruxelles, al Parlamento Europeo, per rivendicare quella sicurezza che nella rete ferroviaria italiana manca da sempre e che, se ci fosse stata, non avrebbe dato luogo alla strage di Viareggio, a quella ultima di Andria, a quella di Crevalcore, di Piacenza e ad altri eventi di minore impatto solo in termini di numero delle vittime.

Dal 2010 abbiamo istituito i “Giorni della memoria”, che si tengono in estate e costituiscono un momento importante di dibattito e confronto collettivo sui temi che portiamo avanti. Inoltre il 29 di ogni mese, dal luglio del 2009, ci rechiamo sul luogo della strage alle 23,50, l’orario in cui è avvenuta, per ricordare le 32 vittime, ma soprattutto per ribadire che la memoria è la nostra forza. Infine ogni 29 giugno si tiene una grande manifestazione a Viareggio, che vede la presenza di migliaia di persone (nel 2016 i giornali hanno addirittura parlato di 20 mila partecipanti); numeri che per una città come la nostra sono straordinari. Basti pensare che all’ultima fiaccolata, tenutasi lo scorso 29 dicembre, c’erano più di 500 persone, nonostante il freddo e le cattive condizioni metereologiche. Il 31 gennaio al processo c’erano centinaia di persone a sostegno dei familiari, per aspettare la sentenza tutti assieme.

Tutto questo per dire che la mobilitazione vuol dire solidarietà, unione delle forze, iniziative comuni, organizzarsi per non delegare ad altri questa battaglia e, soprattutto, per non dipendere da altri. Noi abbiamo sempre messo al centro della nostra iniziativa il protagonismo di ognuno, a partire dai familiari delle vittime, cercando di mantenere la massima indipendenza da tutte le forze istituzionali e politiche. È importante segnalare che abbiamo spesso intrecciato il nostro agire con comitati di altre città: martedì all’attesa della sentenza erano presenti anche gli operai di Sesto San Giovanni, che da anni stanno conducendo una battaglia per la salute contro i rischi dell’amianto, esponenti dell’AFeVA, l’Associazione Famigliari Vittime Amianto nata a Casale Monferrato, di cui conosciamo tutti la storia, i familiari delle vittime del Moby Prince di Livorno, quelli dei bambini morti nella scuola elementare durante il terremoto di San Giuliano di Puglia. Si è costituito, attraverso rapporti ed iniziative comuni, un vero e proprio coordinamento di associazioni e comitati nati in seguito alle stragi avvenute nel corso di questi anni. Ognuno dà forza all’altro rispetto ai problemi attuali che riguardano questioni processuali, ma che vertono soprattutto attorno al tema della sicurezza, per la salute e la vita delle persone.

Dopo la sentenza avete fortemente chiesto che personaggi come Moretti, Elia e Margarita, che sono stati condannati ma che continuano a ricoprire ruoli dirigenziali in aziende di Stato o controllate, vengano destituiti dai loro incarichi. Come pensate di dare luogo a questa legittima richiesta?

Dobbiamo sapere che nei mesi successivi al disastro ferroviario noi abbiamo raccolto 10 mila firme nella nostra città per le dimissioni di Moretti da amministratore delegato della holding FS. Le abbiamo consegnate alle massime cariche dello stato, ma sono state (come era prevedibile) accantonate immediatamente. La cosa è comunque servita per portare avanti un’opera di sensibilizzazione e diverse iniziative anche su questo tema.

Mauro Moretti , nominato Cavaliere del Lavoro dall’allora Presidente della Repubblica Napolitano circa un anno dopo la strage, è stato sempre confermato ai vertici di FS sia dal governo Berlusconi, che da Monti e Letta. In quest’ultimo caso la conferma è avvenuta quando Moretti era già stato rinviato a giudizio per la strage. Il governo Renzi lo ha addirittura promosso ad amministratore delegato e direttore generale di Finmeccanica, oggi Leonardo. Giulio Margarita, condannato a 6 anni e 6 mesi,  ex direttore del Sistema gestione sicurezza di Rfi, è adesso uno dei massimi dirigenti dell'Agenzia Nazionale per la sicurezza ferroviaria. Pensate, una persona condannata per aver omesso misure di sicurezza necessarie ad evitare una strage come quella di Viareggio dirige oggi l’istituto più importante in questo Paese rispetto alla sicurezza ferroviaria!

È evidente, dunque, che la politica aveva già assolto questi signori e  proprio per questo sapevamo che non si sarebbe trattato di un processo semplice, visto che sul banco degli imputati sedevano manager di Stato di primo piano. Sapevamo anche che l’unica cosa che avrebbe potuto cambiare la storia processuale sarebbe stata la mobilitazione popolare, le battaglie dei familiari e degli stessi lavoratori delle ferrovie. L’avvocato di Moretti, come dicevi all’inizio, ha definito la sentenza «populista», ma a noi piace intenderla come una «sentenza di volontà popolare», perché è stata in grado di raccogliere, anche se in maniera parziale, un’esplicita richiesta di responsabilità per chi, nelle sue funzioni dirigenziali, non ha fatto nulla per impedire la strage di Viareggio ed altre stragi di questo tipo.

Le dimissioni di Moretti, Elia, Margarita ed altri le abbiamo sempre chieste. Le chiediamo oggi, a maggior ragione, sulla base di una sentenza che accerta le loro responsabilità. Oltre alle dimissioni sia l’Assemblea 29 giugno che l’Associazione dei familiari delle vittime chiede che vengano loto tolte tutte le onorificenze ricevute.

Lei ha parlato molto di sicurezza, non solo quella della rete ferroviaria, ma quella che riguarda la vita e la salute dei cittadini. Le scelte della nostra classe politica vanno, però, in un’altra direzione e tendono ad implementare un modello, quello delle “grandi opere”, che spesso sacrifica sicurezza e manutenzione per i grandi investimenti infrastrutturali. Nei vostri dibattiti e nelle vostre battaglie esce fuori anche questa questione?

La battaglia per la sicurezza che noi stiamo conducendo, che riguarda in particolare il trasporto di merci e persone, si scontra oggettivamente con una linea di investimenti pubblici che è andata in senso opposto. Questo non si può nascondere e l’Alta Velocità ne è un esempio lampante, perché rincorre quella logica di business e profitto che penalizza fortemente le ferrovie come servizio popolare, sociale e sicuro.

Rispetto alla sicurezza ferroviaria, noi come ferrovieri abbiamo individuato già da anni, molto prima della strage di Viareggio, delle proposte concrete che richiedono investimenti pubblici e strutturali. Proposte che sono state portate nelle sedi opportune, dalle commissioni parlamentari a Bruxelles all’Agenzia Nazionale per la sicurezza ferroviaria fino alla commissione investigativa del Ministero dei Trasporti (istituita dopo la strage di Viareggio), ma sono sempre state accantonate con solerzia. La risposta della holding FS è stata sempre la stessa: «con questi investimenti in sicurezza non si è più competitivi sul mercato». Tradotto, significa che per stare sul mercato dobbiamo necessariamente penalizzare la sicurezza. Si tratta di una vera e propria logica manageriale e politica, che elude le singole casistiche. Una logica che non possiamo accettare, che come ferrovieri abbiamo sempre denunciato e che purtroppo è alla base di stragi come quella accaduta a Viareggio. La vita e la sicurezza delle persone devono essere al primo posto e non subordinate ai profitti.

Alla base di questa denuncia politica ci sono tagli al personale e tagli alla spesa sulle misure di sicurezza (come la riduzione automatica della velocità, il rilevamento termico Boccole, i dispositivi antisvio, carri-merci a rischio zero dal punto di vista delle sostanze tossiche, carri-cuscinetto sui mezzi che trasportano materiale infiammabile). I dirigenti delle Ferrovie si confermano sempre più partigiani della liberalizzazione e del profitto, mentre noi saremo sempre partigiani della sicurezza e della salute per i lavoratori, per i viaggiatori e, soprattutto dopo Viareggio, per tutti i cittadini, perché non dimentichiamo mai che molte delle persone morte il 29 giugno 2009 stavano riposando nelle proprie abitazioni e non stavano viaggiando o aspettando il treno in stazione.