Eritrei, marocchini, tedeschi, italiani, perfino lombardi. Il 50,3% della Svizzera ha detto di non voler più nessuno. La cavalcata referendaria dell’UDC, il partito populista svizzero che contro tutti ha portato avanti la campagna contro l’"immigrazione di massa", fa tremare l’Europa, ma propone immediatamente un corto circuito inimmaginabile.
Il
referendum porta con sé diverse questioni. La prima, la più evidente, è
quella che attiene alle spinte nazionalistiche che, non solo in
Svizzera, ma in tutta Europa si stanno facendo largo. Un pensiero
anti-europeo che si intreccia ormai inscindibilmente con razzismo e
xenofobia. D’altronde la crisi è anche questo. Ragion per cui il
problema che tutti abbiamo di fronte va molto oltre la battaglia contro
l’austerity, ma pone immediatamente una necessità costituente:
l’affermazione di uno spazio di alternativa.
Eppure, anche sul terreno degli effetti della crisi, a ben guardare la
situazione elvetica, di tutto si può parlare meno che di invasione e di
disastro economico. I tassi di disoccupazione sono tra i più bassi d’
Europa, nelle zone più interessate dall’immigrazione, lì dove gli
"stranieri" sono un bacino di forza lavoro essenziale per l’economia
svizzera, i sostenitori del referendum non hanno avuto vita facile,
mentre è proprio dove la presenza di immigrati è più bassa che il
partito del SI ha fatto bottino pieno. Questo la dice lunga sulla
dimensione simbolico/mistificatoria di questa battaglia referendaria e
sulla posta in gioco ben più ampia che si gioca in questa vicenda. Come
per la Francia e per l’Olanda, ed in parte anche per l’Italia, è intorno
all’evocazione della protezione del mercato del lavoro e ad una
presunta difesa dell’economia statuale che i nazionalismi trovano
spazio. La retorica del confine si mischia quindi a quella della difesa
nazionale rendendo qualsiasi discorso anti-europista che non ponga il
problema dell’alternativa immediatamente escludente. La retorica
protettiva, il richiamo continuo al linguaggio delle frontiere,
dell’esclusione e dell’egoismo sono non solo un rischio ma una realtà..
Insomma, la guerra ai migranti ed il discorso sul lavoro che non c’è,
non sono certo cosa nuova. In Svizzera però ne scopriamo senza
mediazioni le reali implicazioni.
Di nuovo infatti c’è l’oggetto
di questa diatriba. Con la sola eccezione del nuovo segretario leghista
Matteo Salvini, troppo impegnato a sfornare comunicati stampa e
dichiarazioni roboanti, in molti, perfino Roberto Maroni, hanno notato
una differenza non da poco nella battaglia referendaria elvetica.
Certamente lo hanno fatto i sessantamila frontalieri italiani che
rischiano ora di trovarsi la frontiera, ed il futuro lavorativo,
sbarrati dal meccanismo delle quote.
In barba agli obblighi internazionali in materia di asilo sottoscritti proprio a Ginevra nel 1951, il referendum svizzero impegna il governo a stabilire un tetto massimo di permessi rilasciati a chi fugge dalla guerra e richiede protezione. Allo stesso tempo, oltre ovviamente ai permessi per lavoro, verrebbero sottoposti al meccanismo delle quote anche le autorizzazioni rilasciate a chi vuole ricongiungersi con la propria famiglia. Una aberrazione. Ma tutto questo, pur gravissimo, sembra avere un carattere piuttosto residuale. Ciò che sembra più importante in questa faccenda è che tutto ciò non riguarda solo gli "invasori" nordafricani o i "disperati" subsahariani, ma per primi i cittadini dell’UE. Per la verità il dibattito era stato aperto già dal premier britannico Cameron e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel quando solo un anno fa ponevano il problema di una crescente mobilità di cittadini UE verso Inghilterra e Germania, con forti preoccupazioni per le ricadute occupazionali dovute all’esercizio di una libera circolazione interna non selettiva.
L’Europa, che ha un bisogno vitale di mobilità interna, ha al tempo
stesso da sempre la necessità di regolarne le spinte. Un vero e proprio
corto circuito che la Svizzera racconta senza mediazioni.
Non è un caso che la libera circolazione sia solo l’innesco di una
catena di conseguenze che investono invece la complessa sfera degli
accordi bilaterali stipulati dall’Ue con la Svizzera. L’applicazione del
testo del referendum potrebbe avere infatti impreviste ripercussioni su
una serie di questioni strategiche che fanno guardare alla vicenda
elvetica con preoccupazone. Il potenziale epicentro di un terremoto i
cui effetti sono ancora tutti da scoprire, non solo per il mercato
interno, ma soprattutto per lo spazio politico di negoziazione aperto
proprio nel cuore di quell’Europa che sui confini e la loro funzione
selettiva ha fondato gran parte della sua costruzione. Chi di confini
fersice di confni perisce, verrebbe da dire.
Come l’Europa risolverà il suo rapporto con la Svizzera è un rompicapo
non da poco. Ma la vera domanda è un’altra. Quale sarà infatti la
risposta dell’Unione di fronte all’avanzata delle forze anti-europeiste
nell’intero continente? Certo la Svizzera, rispetto ad altri paesi, per
la natura eccezionale del suo "rapporto" con l’UE ha avuto ampi margini
di manovra, impensabili per altri stati interconnessi ormai in maniera
strutturata, anche dal punto di vista normativo e giuridico, con gli
Istituti dell’Unione. Ma si tratta di un campo di tensione inedito,
dagli sbocchi piuttosto incerti. Se l’Europa, a breve chiamata a
rieleggere il suo parlamento, saprà fare un balzo in avanti nella
costruzione di uno spazio europeo (e oltre lo spazio europeo) capace di
invertire radicalmente le sue politiche di austerità e di confine, o se
invece proprio per detonare la minaccia dell’avanzata nazionalistica gli
Stati dell’Unione accompagneranno questi processi cercando di
intensificare le politiche del confine (con la revisione degli accordi
di libera circolazione interna, nuove norme ferree nei confronti dei
cittadini di paesi terzi, etc, etc) è una questione più che mai aperta.
Se guardiamo alla vicenda svizzera andando oltre la retorica anti-immigrati, potremmo riuscire a capire quanto la gestione della circolazione, delle frontiere, della mobilità selettiva, sia un nodo cruciale per la ridefinizione dell’Europa, un terreno su cui siamo tutti coinvolti.
La Svizzera insomma ci fa riscoprire tutti migranti. E’ forse su
questo punto che vale la pena di iniziare a ragionare per abbattere,
insieme all’Europa dell’austerity, anche i suoi confini.
La Carta di Lampedusa afferma la necessità di abrogare tutte le norme nazionali e internazionali, con particolare riferimento alla normativa europea che discende dal trattato di Schengen, che limitano la libertà di movimento, di restare e di scegliere dove vivere dei cittadini europei e di quelli provenienti dai cosiddetti paesi terzi, anche nella loro specificità di richiedenti protezione internazionale