Tecnopolitica dell’inciucio. Brevi note sul governo Draghi

15 / 2 / 2021

La squadra del nuovo governo Draghi è pronta e mercoledì il nuovo premier è atteso in Parlamento per il voto di fiducia. I ministri sono in tutto ventitré, di cui quindici politici e otto tecnici; sette le riconferme negli stessi ministeri. Se il governo Conte bis era a “trazione meridionale”, questo ha ben otto ministri lombardi nella squadra; e tre settentrionali su quattro.

Proviamo ad analizzare la lista ponendoci innanzitutto una domanda non semplice: è un governo tecnico o politico? Scorrendo l’elenco dei nomi sembra essere un governo per certi aspetti “vintage”, con ben tre ministri – Brunetta, Gelmini e Carfagna – che ci riportano indietro di 15 anni, in piena “era berlusconiana”. E in effetti Silvio Berlusconi, che dell’ensemble tra spettacolo e politica è stato sempre un grande esperto, ha salutato il suo ennesimo ritorno in pista come una rock star.

Prosegue intanto il trasformismo di Matteo Salvini. Da separatista convinto a nazionalista, fino ad arrivare a diventare addirittura un europeista. Sarebbe semplicistico definire quella di Salvini una “svolta europeista”, perché era probabilmente da tempo che la Lega incubava questo nuovo corso. Che l’Europa dovesse ritrovare “le proprie radici”, il leader leghista lo aveva infatti già detto in una manifestazione in piazza del Popolo a Roma due anni fa, ma è sicuramente una vera e propria svolta il sì al Recovery Fund degli europarlamentari leghisti votato a Bruxelles la scorsa settimana. Chissà che, orfano di Trump e tradito a ripetizione dai suoi amici di Visegrad, Salvini non trovi proprio nella stabilità finanziaria e nei “poteri forti” tanto odiati a parole la via leghista al populismo.

È un governo “senza donne”. L’idea del governo con il 50% di presenze femminili è naufragata subito. Inoltre, delle otto ministre scelte da Draghi, solo una appartiene allo zoccolo duro della compagine “giallo-rossa”: si tratta di Fabiana Dadone del Movimento 5 Stelle;  Pd e Leu, che più si erano esposti per avere un equilibrio di genere nell’esecutivo, esprimono solo ministri uomini.

Sono tre le ministre senza portafoglio. Tre volti che già hanno ricoperto ruoli importanti negli scorsi anni: al ministero delle Pari opportunità e della famiglia Elena Bonetti di Italia Viva, ministro uscente dal Governo secondo governo Conte, Erika Stefani della Legaal ministero per le Disabilità e, appunto, Fabiana Dadoneal ministero per le politiche giovanili.

Scorrendo la lista dei ministri si percepisce bene “l’equilibrio” che Draghi ha cercato di creare: quattro ministri del Movimento 5 Stelle (Di Maio, D’Incà, Patuanelli, Dadone), tre ministri per il PD (Orlando, Franceschini, Guerini), tre ministri per la Lega (Giorgetti, Stefani, Garavaglia), tre ministri per Forza Italia (Brunetta, Gelmini, Carfagna), un ministro per LeU (Speranza), un ministro per Italia Viva (Bonetti), otto ministri tecnici (Franco, Cingolani, Cartabia, Lamorgese, Bianchi, Messa, Colao, Giovannini)

Draghi ha lavorato molto per inserire le persone giuste, a suo modo di vedere, nei ministeri di spesa, quelli che dovranno gestire un Recovery Plan che soddisfi l’Europa. Ai partiti sembra, al momento, che la gestione di questi fondi non sia consentita.

Luigi Di Maio è riconfermato alla guida del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale: il tanto cercato “alto profilo” continua a non passare per la Farnesina. Nei giorni scorsi si era parlato di un possibile spostamento verso altri ministeri, ma non un declassamento.

Oltre a quella Di Maio, le altre riconferme non hanno destato particolari scossoni.

Tra i “ministri politici”, i personaggi che hanno meravigliato di più per il loro ingresso nella squadra di governo sono stati i tre di Forza Italia. Tra i ritorni che stavano facendo più discutere c’è sicuramente quello di Renato Brunetta alla guida della Pubblica amministrazione. La sua è stata un’esperienza governativa carica di tensioni, dalla lotta ai “fannulloni” alla possibilità di inserire i tornelli negli uffici.

La squadra dei tecnici è quella che gestirà alcuni aspetti chiave per il governo Draghi. Conosciamo meglio chi sono.

Marta Cartabia ministra alla Giustizia. Costituzionalista di rilievo internazionale e tecnica “perfetta” per ogni tipo di incarico politico. Giorgio Napolitano l’aveva nominata nel 2011 alla Consulta, facendone a soli 48 anni la componente più giovane di sempre. La Cartabia già dai tempi dell’Università è stata sempre vicina agli ambienti di Comunione e Liberazione. Ha più volte dichiarato come la costituzione italiana protegga la famiglia, differenziandola da altre forme di convivenze e non permette i matrimoni omossesuali. Tra le sue idee vi è anche quella, neppure troppo nascosta, della contrarietà all’aborto.

Daniele Franco sarà ministro all'Economia. Direttore generale di Bankitalia in cui ha lavorato per trent'anni (anche con Draghi), torna come ministro a via XX Settembre, dove fino al 2019 ha retto l'organo che vigila sulla "rigorosa gestione delle risorse pubbliche". Nell’autunno 2014 si è messo di traverso sulla prima legge di Bilancio del governo Renzi, considerata troppo “espansiva” e nel 2018 era tra i “tecnici del Mef” indicati dal portavoce del premier Giuseppe Conte come “servitori dei partiti e non dello Stato” perché colpevoli di intralciare l’iter del reddito di cittadinanza. Franco infatti non ha mai nascosto la sua contrarietà a questo tipo di misura. Ne vedremo delle belle.

Roberto Cingolani sarà il nuovo ministro alla Transizione ecologica, nuovo dicastero che, probabilmente, avrà un ruolo chiave nella gestione di parte dei fondi che arriveranno all’Italia attraverso il Recovery Fund, in particolare in quella grande fetta destinata al fantomatico green deal. Dal 2019 è stato chief innovation officer di Leonardo SpA. È superfluo ricordare il ruolo di Leonardo, entrata negli ultimi anni nella top 10 mondiale delle imprese belliche. Negli ultimi quattro anni, i principali acquirenti di sistemi militari italiani sono stati i Paesi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente a cui i governi Renzi, Gentiloni e Conte hanno autorizzato l’esportazione di materiali militari per quasi 17 miliardi di euro, pari al 51,2% del totale delle licenze rilasciate (33 miliardi di euro). Esportazioni di sistemi militari che vengono spesso osannate come «rinnovata capacità del Made in Italy di penetrare nei mercati esteri», mentre sono, più prosaicamente, solo forniture di armamenti per sostenere regimi autocratici e dittatoriali. D’altronde potrebbe essere l’uomo giusto per la “transizione ecologica”, visto che il connubio guerra-esstrattivismo-green washing non lo scopriamo certo oggi.

Patrizio Bianchi sarà ministro all'Istruzione. Si tratta di uno dei più quotati economisti industriali italiani. Assessore all'Istruzione e all'Europa in Emilia Romagna per 10 anni, si è attivato per una scuola vicina al lavoro e alle tecnologie Il suo decennio da assessore si è concluso con la scelta di guidare, da direttore scientifico, l’Ifda (Fondazione internazionale big data e intelligenza artificiale per lo sviluppo umano). Per una scuola indirizzata definitivamente verso una didattica virtuale, la poltrona di viale Trastevere 76 sembra essere stata fatta su misura per Bianchi.

Cristina Messa prossima ministra all'Università è stata rettrice di Milano Bicocca dal 2013 al 2019 e ricercatrice del San Raffaele di Milano, uno dei principali poli scientifici privati a livello europeo. Non aggiungiamo altro, se non che con Bianchi e Messa continuerà senza sosta l’aziendalizzazione del sistema formativo italiano.

Vittorio Colao, più volte tirato in ballo in questi ultimi anni, sarà il ministro all'Innovazione tecnologica. Grande sostenitore della rivoluzione digitale, il manager bresciano, ex carabiniere (orgoglioso), ha costruito gran parte della sua carriera in Vodafone, che ha guidato prima in Italia e poi a livello globale fino al maggio 2018. In mezzo una breve esperienza alla guida di Rcs MediaGroup, editore del «Corriere della Sera».

I tecnici, come scritto in precedenza, saranno quelli che dovranno gestire i fondi del Recovery Fund.

Sul Financial Times Brancaccio e Realfonza, professori dell’Università del Sannio, affermano che se il finanziamento europeo del Recovery Fund non sarà più generoso, le politiche di Draghi non saranno molto diverse da quelle all’insegna dell’austerity dei tecnocrati che lo hanno preceduto.

I due professori attaccano l’idea che l’arrivo di Draghi sia stato necessario per gestire al meglio le “enormi” in arrivo perché “l’Italia riceverà molto meno di 10 miliardi all’anno dall’Europa per i prossimi sei anni, a fronte di “una crisi che ha distrutto oltre 160 miliardi di PIL solo nel 2020”. Questo obbligherà l’ex governatore della Bce a comportarsi esattamente come i suoi predecessori ‘tecnici’, Ciampi e Monti: “indebolire le forze parlamentari per aumentare l’autonomia del Governo nel gestire le poche risorse disponibili”.

E gli attori politici? Cosa pensano davvero di questi intrecci? Cosa pensano Beppe Grillo e i Cinque Stelle, che saranno costretti a votare la fiducia a un governo in cui sono presenti “personaggi” che rappresentano in pieno il Berlusconismo.

E i “compagni e le compagne” di Leu saranno orgogliosi di sedere negli stessi scranni dei leghisti Giorgetti, Garavaglia e Stefani, fieri sostenitori delle politiche dei porti chiusi di Matteo Salvini?

E quest’ultimo, riuscirà a sopportare di governare insieme alla ministra che egli stesso ha definito “degli sbarchi” e che ha in parte abrogato i suoi decreti sicurezza?

Matteo Renzi, l’uomo della crisi, con soltanto un ministero che partita giocherà? Gli interessa la stabilità del governo o l’instabilità del suo ex partito?

Interrogativi che sembrano degni di una “commedia all’italiana” o di un teatro dell’assurdo. Ci si meraviglia ogni volta di quanto i partiti e gli attori politici abbiano perso quei valori che in passato li contraddistinguevano. Forse questo passato non è mai esistito, ma quello che è certo è che l’unica vera opposizione a questo governo potrà nascere nelle piazze e grazie ai movimenti sociali.