The agreement

13 / 7 / 2015

Europe. Una serie epica in sette puntate, che ha tenuto il mondo col fiato sospeso e con umori altalenanti per sette infiniti giorni e sette infinite notti. Entusiasmo, rabbia, impotenza, sconforto, riscatto, odio e la costante certezza di una posta in gioco che meritava tutte le energie e l’attenzione possibili. Sette giorni con la faccia incollata alle tv e alle homepage dei giornali europei a seguire l’ignobile trama recitata dai capi di Stato europei e dai ministri delle finanze, a partire dalla costatazione ufficiale della straordinaria vittoria di OXI di domenica scorsa e dall’inaspettato attacco che la democrazia sferrava alla dittatura del debito. Stamane hanno mandato in onda, a reti globali unificate, l’ultima puntata, quella che generalmente svela il colpevole o il destino dell’eroico protagonista e che definisce una volta per tutte la vera natura dei personaggi. E così quest’ultimo episodio della saga epica che ha fatto tremare i colossi finanziari del pianeta e che potremmo intitolare “the agreement”, come la parola solenne pronunciata da Tusk in conferenza stampa stamane, è l’episodio che ha svelato, laddove ce ne fosse ancora bisogno, la vera natura degli Stati Europei, indipendentemente dalla formale differenza tra governi socialdemocratici o liberali e dai sorrisi più o meno amichevoli rivolti a Tsipras durante questi cinque mesi di negoziati. 

Basta mettere in fila il susseguirsi degli eventi di queste ultime concitate ore, le dichiarazioni, le indiscrezioni, le coalizione tra avvoltoi e leggere il testo definitivo con gli ultimi aggiustamenti, per assistere al delinearsi di una trama inquietante, con un orribile finale, che ricorda proprio l’epica  delle serie tv contemporanee, quelle  che hanno dismesso il lieto fine e preferiscono ad esso il progressivo disvelamento delle oscenità di cui è capace l’umano. Così “The agreement” finisce con un colpo di Stato volgare e arrogante e con la messa a nudo dei protagonisti che hanno applaudito alle condizioni barbare imposte alla Grecia. Le labbra sottili e i sorrisi sadici dei ministri delle finanze, hanno prodotto un testo che semplicemente, punto dopo punto, demolisce lo spazio dell’alternativa al trend del saccheggio e della devastazione messo in opera dalle governance europee fino a questo momento. Un documento che di fatti delegittima il governo di SYRIZA nel profondo, imponendogli un programma pieno delle cose contro cui il partito ha costruito negli anni il proprio consenso. In quattro pagine si spiega con semplicità che la Grecia dovrà cambiare e liberalizzare selvaggiamente il mercato del lavoro, distruggere la contrattazioni collettive, licenziare, aumentare l’iva, metter mano alle pensioni e rendere disponibili i propri beni. Sembra quasi che qualcuno abbia preso il programma con cui Tsipras ha vinto le elezioni e l’abbia rovesciato del tutto, imponendogli un accordo che punto dopo punto costringe a fare esattamente il contrario. E questo è il colpe. This is the Coup, come dice l’hashtag che ha fatto il giro del mondo nelle ultime ore. I re e le loro corti di parassiti e ideologi, soddisfatti e nudi, sfilano adesso l’uno dopo l’altro dinanzi alla responsabilità storica di aver scelto di punire un paese per la sola richiesta di democrazia e di condizioni di restituzione del debito che non costringessero ancora i cittadini alla disperazione e alla fame. Hanno spinto fin dove potevano per dimostrare che il potere dell’umiliazione e della mortificazione resta saldamente nelle loro avide mani e che nessuno può sfidare quel coacervo di privilegi che siede tra Francoforte e Bruxelles. L’accordo è una vera e propria campagna di conquista e predazione molto più interessata a sancire politicamente lo status di colonia della Grecia, che l’ effettiva necessità di restituzione del debito ai creditori. D’altra parte non è una novità l’utilizzo del debito come forma di governo del vivente e della vita stessa degli Stati. La novità è piuttosto la resistenza e lo smascheramento del dispositivo di cui si è reso protagonista il popolo greco in queste settimane, che ha fatto vacillare e tremare i signori del debito perché ha reso plastico un meccanismo che per funzionare a dovere bisogna che resti celato e opacizzato dietro la costruzione della colpa e della necessaria mortificazione. La Grecia ribelle dunque ha denudato i Re e ha ucciso T.I.N.A.,  il there is no alternative mantra dell’ineluttabilità delle regole ultra liberali e ad esso ha contrapposto un immenso Oxi costituente, pronto a rischiare tutto per mantenere salda la dignità e la necessità  di un po’ di giustizia sociale. Il cadavere di T.I.N.A. è esposto ogni giorno a piazza Syntagma da settimane, calpestato dai migliaia di corpi che continuano a riversarsi nelle strade e nelle piazze, unici luoghi custodi di incontrovertibile sovranità.  E’ questo omicidio collettivo che la Grecia paga per sé e per noi tutti e che ha motivato l’offensiva violenta dell’Europa delle banche e della moneta. Un gioco  sporco, tutto costruito sul tallone di Achille della controparte: le mura spesse della Nazione che circondano lo spazio ribelle della Grecia. 

Il riconoscimento della parte che negozia come Stato-nazione e la possibilità di schiacciare il governo nazionale stesso tra tirannia finanziaria e perdita del consenso popolare ha favorito, da parte dell’Europa, la  retorica che chiama in causa  gli impegni presi, le riforme da fare e quelle non fatte, la responsabilità dell’uno sul destino dei molti. Un terreno   inevitabile per il governo, ma aggirabile per il popolo greco se solo l’Europa vera, quella fatta dai cittadini e dalle cittadine di tutti i paesi, non fosse afflitta da una inguaribile patologia da social-network e costruisse, insieme all’hashtag della reazione anche lo spazio della rivolta. Tsipras ha combattuto contro una forma di governo che mette sotto scacco l’intera Europa e il sud con particolare violenza. Quella battaglia aveva ed ha bisogno di un contagio molto più serio delle, bellissime, manifestazioni di solidarietà. E’ il tempo della responsabilità questo. 

Non farlo, non riconoscere in quello che accade in queste ore l’apertura di una vera e propria guerra civile nel cuore dell’Europa, vuol dire assumere per inerzia la retorica della colpevolezza della Grecia e fare il tifo semplicemente perché la nostra sorella malata riesca a superare la notte senza lasciarci la pelle. Con quale coraggio? E soprattutto da quale supposta diversità di condizione? Basterebbe partire da noi e non dall’idea di appartenenza ad un Europa bionda, calvinista e produttiva di cui non abbiamo mai conosciuto i privilegi. Tante metropoli del sud Europa (e Napoli è una di queste), hanno una situazione sociale che statisticamente (e non solo) riporta dati simili se non peggiori di quelli di Atene e Salonicco e una crisi occupazionale così drammatica da aver costruito sull’idea del non-lavoro una sorta di società nella società, che vive tra inventiva, espedienti, autorganizzazione e sommerso per garantirsi la sopravvivenza. In questi anni, tanto per fare alcuni esempi, il meridione ha toccato con mano l’espropriazione coloniale dei beni pubblici e di tanto patrimonio archeologico della nostra parte di Magna Grecia, motivato dalla supposta incapacità meridionale di gestire le “bellezze” possedute. Il calvinismo e la retorica della pigrizia e della colpa hanno rappresentato anche qui lo sfondo di moltissima della razzializzazione costruita contro il sud Italia ed ancora oggi motiva provvedimenti coercitivi sui posti di lavoro sulla base di un pregiudizio antropologico che ci vorrebbe meno produttivi e veloci dei nostri vicini del nord.  Potremmo quasi dire che il meridione ha sperimentato ante-litteram la barbarie del partito del Grexit, quando alcune forze politiche hanno costruito la propria propaganda sull’idea della zavorra meridionale di cui il nord doveva liberarsi. Erano altri anni. Poi la bolla speculativa che soggiaceva all’entusiasmo per la ricchezza facile è esplosa in faccia anche ai razzisti settentrionali che oggi hanno dovuto rivolgere il proprio irrinunciabile odio verso i migranti e verso nuove soggettività subalterne. 

Eppure la questione non è così banale e non deve interessare banalizzarla per semplificarla. 

 E’ evidente che la guerra civile non è tra Sud e Nord Europa, come potrebbe apparire ad una lettura superficiale della questione neocoloniale che si sta proponendo in  Europa. E’ bensì una guerra  tra governanti e governati, tra subalterni e colonizzatori, tra insolventi e creditori, che riguarda disomogeneamente e diagonalmente i sud tra i nord, le zone a bassa cittadinanza, le esclusioni differenziali, le marginalità, la vita oltre la normatività germanica, le povertà vecchie e nuove che emergono irrefrenabilmente nel continente.

Quello che appare necessario e per cui serve l’utilizzo di un po’ di memoria storica condita alla presa d’atto del punto di enunciazione, è il riconoscimento di un comune politico tra soggettività maggiormente esposte al giogo autoritario della troika. E non è detto che questa esposizione non riguardi anche la periferia di Helsinki. L’ordoliberalismo tedesco ha strumenti meno sofisticati di pervasione della società al cospetto del modello ultraliberale anglo-americano. Il gioco di esclusione che produce è quindi paradossalmente più evidente e non è affatto circoscrivibile allo spazio nazionale, nonostante quello stesso spazio oggi riemerga come possibile nuovo spazio di resistenza  a causa dell’esistenza di forze politiche radicalmente nemiche della governance europea e però gravide di alternative. 

Ma non è sufficiente. E lo stesso Tsipras lo sa bene. 

Non è nuovo patriottismo quello per cui combattono i cittadini e le cittadine greche, nonostante sventolino da giorni le bandiere bianche e azzurre. Il nemico invasore e colonizzatore non è una Nazione, per quanto la Germania abbia un ruolo simbolico e reale di comando e controllo delle manovre europee sul casi greco. Il nemico è la sommatoria di tutti i poteri economici e politici europei che oggi hanno espresso piena soddisfazione per l’accordo. 

Per questo una resistenza su scala nazionale, soprattutto ora che l’accordo è stato siglato, non avrebbe e non ha nessuna efficacia. E gli assenti siamo noi. Un noi incarnato e definito da un conflitto che senza paura o mezzi termini definiamo di classe e dentro al quale bisogna prendere una posizione che preveda la messa in gioco delle soggettività. Serve, mai come adesso, farsi movimento, mostrare il potere costituente del rifiuto e costruire una mobilitazione territorializzata e al contempo transnazionale che spiazzi il punto di forza della Troika, quello dell’accanimento sul caso singolo.

 E chissà che la seconda serie di questa epica senza eroi non avrà un finale diverso, che renda finalmente giustizia a chi giustizia pretende.