La sfida per la guida del green course

The Beijing consensus

20 / 12 / 2009

Esistono momenti storici di transizione, finestre temporali lunghe brevi mesi o dispiegate per interi decenni nelle quali si è sospesi tra un non più ed un non ancora.

La fine del durissimo golpe bushista è stata seguita dalla tendenza al divenire multipolare e governamentale del comando globale, come abbiamo dibattuto a lungo anche su globalproject.info.

Non è dato di vedere in forma compiuta un nuovo equilibrio ed il suo nuovo statuto, la divisione internazionale della sovranità per dirla in forma “hard”, ma alcuni episodi sono davvero potenti per comprendere la roadmap evolutiva.

La conclusione della conferenza COP15 è, a parere di chi scrive, uno dei momenti di passaggio.

La proiezione neo-imperiale dell'amministrazione americana è stata sospesa fino al 17 dicembre tra disconoscere la conferenza ed il tentativo di farne e darne la sintesi. In entrambi i casi l'intera amministrazione ha perso, senza alcun alibi. L'arrivo di Obama è coinciso con la sua precipitosa ritirata, con il solo armistizio del Climate accord.

Due istantanee mi hanno colpito: Obama che non viene ricevuto dal premier cinese ed il suo viso, icona globale, tirato, stanco.

A Copenhagen vengono a maturità due nuove isole continentali al loro interno politicamente coese e dotate di una strategia integrata dal punto di vista politico ed industriale.

Da un lato il progetto Alba caratterizzata dall'ipotesi bolivariana, socialista, che, purtroppo, ha avuto anche una certa fascinazione tra alcune reti che hanno partecipato al Klima Forum e ciò che rimane degli ml terzomondisti.

Dall'altra Cindia, con Pechino vero master of cherimony della conferenza e capace di divenire anche leader del G77 -va detto che da almeno vent'anni la Cina investe economicamente in Africa, ad esempio nell'islamico Sudan si parla cinese- cavalcando in sede ONU l'odio dei (sempre) poveri verso i (un tempo) ricchi.

Lo scontro delle ultime 48 ore tra Stati Uniti e Cina non si è articolato tra  responsabilità ambientale e diritto ad inquinare ed a svilupparsi industrialmente.

La sfida, a me pare, sarà tra chi avrà la leadership tecnologica della nuova fase imperiale e chi ha avrà la sovranità su essa determinando i nuovi standard industriali e la tempistica della loro attuazione.

Solo i commentatori più miopi hanno letto la "battaglia del Bella Center" come il conflitto tra la ecologia obamiana e la inquinante economia pianificata cinese. Come si fa a non vedere che è proprio in Cina che si stanno costruendo decine di Transition Towns, che centinaia di migliaia di ricercatori sono al lavoro per sviluppare le nuove tecnologie green sia per compagie americane (IBM, GE, 3M, …) che per le loro public companies? A Bangalore si sviluppa il fututo dell'economia (American Express, Tata, …) , non si attende la delocalizzazione degli impianti industriali europei; nei campus di Shangai si forniscono borse di studio per i migliori studenti, anche americani!

La posta in palio è altissima ed il round è stato vinto (e così celebrato) da Cindia.

Da qui si riparte, dalle contraddizioni enormi che si sono articolate e sviluppate e per nulla risolte. Un tempo c'era il Washintong consensus, ora non più, o non nei termini che abbiamo conosciuto negli ultimi centocinquant'anni.

Nei prossimi anni i movimenti globali potranno diventare ancora più globali, investire sempre di più nella produzione del comune con le resistenze -in crescita ed enormi- in queste nuove isole.

L'editoriale di Antonio ci fornisce una prospettiva utile ed efficace per rilanciare l'intervento politico.

La sfida per tutt* noi è pensare in forma del tutto nuova e completa come la issue climatica possa essere il bridge per nuove relazioni globali.

Dietro di noi c'è solo il passato, che, marxianamente, non torna mai.