Ieri la riforma è stata votata in senato in diretta televisiva, in un'aula rimasta semivuota durante le dichiarazioni di voto.
Ancora una volta le immagini televisive dipingono uno scenario surreale
di difficile interpretazione, con un PD che inspiegabilmente accetta il
compromesso con il governo: “non faremo ostruzionismo ma in cambio
parliamo dei contenuti”. Non si capisce di quali contenuti si dovrebbe
parlare dopo due anni di passaggi parlamentari della riforma, e proprio
ora che il rinvio dell'approvazione, grazie ai cavilli burocratici e
alla protesta, stava diventando possibile. E quindi via libera alla
passerella televisiva! Altro dato da registrare, lo sfaldamento del
fantomatico terzo polo alla prima prova sul campo: accordo sostanziale
con la riforma, poi schizofrenici distinguo sulla scelta tra astensione e
voto favorevole. Parallelamente un’insistenza morbosa sull'importanza
del “dialogo con gli studenti” (per qualcuno “i giovani”) in modo da
“isolare i violenti”, come se l'importante non fosse ciò che gli
studenti vogliono (il ritiro della riforma), ma quello che fanno.
L'importante è non turbare la calma artificiale che si respira in un
paese in crisi, è vivere serenamente il classico natale coi regali,
l'albero, le luminare e la felicità, l’importante è che in tv la rabbia
non rubi spazio ai cinepanettoni.
E' passata più di una settimana
dal 14 Dicembre, ma il ricordo è ancora vivo ed è il momento
d’interpretarlo per potergli assegnare un posto adeguato nei libri di
storia. Anche qui le immagini televisive sono spiazzanti, diventando a
freddo preda dei più esagitati commentatori, alla ricerca disperata di paragoni col passato per creare i nuovi mostri del presente.
Tanti
resoconti e commenti sul 14 Dicembre sono stati scritti e letti. Da chi
c'era e ora sente la voglia di sfondare altri muri, di creare la
narrazione di una giornata già diventata simbolo di una generazione. Da
chi non c'era e ci sarebbe voluto essere. Da chi non c'era e ha subito
voluto dare giudizi e consigli: il Saviano di turno che dopo il 14
scopre improvvisamente che c'è una riforma dell'università, sulla quale
continua a non esprimere giudizi di merito, arrogandosi tuttavia il
diritto della predica: ragazzi fate questo e non quello; così vi
conviene e così no...
Per ora teniamoci le narrazioni e
liquidiamo le prediche, se non altro perchè dalla nostra abbiamo il
fatto incontrovertibile che chi dice che il 14 è stato un male, prima
del 14 non ci aveva cagato nemmeno di striscio...
Il 14,
comunque lo si interpreti, è una giornata che rompe la linearità della
storia. Che ci dice che la storia non è finita, perchè sta emergendo con
radicalità l'effetto della crisi sulle tasche, producendo un vero mutamento antropologico,
mettendo in luce l’esistenza di una nuova specie precaria, a cui è
ormai chiaro che questo modello di sviluppo e la gestione globale della
crisi non riescono a dare risposte a tutto. In tutta Europa è emerso un “fuori” sul quale le mediazioni non funzionano e i riformismi falliscono.
Se invece di rinvangare i movimenti del passato gettiamo uno sguardo
verso Atene e Londra, se riflettiamo sugli ultimi due anni di conflitti,
che dalla difesa dei saperi sconfinano nella riflessione sulla crisi,
ci possiamo ben rendere conto di non essere di fronte a fuochi di
paglia.
Guardiamo all'Italia: il giorno del passaggio della riforma
alla Camera, in serata, ci trovavamo in migliaia lungo autostrade e
stazioni, magari camminando intristiti sotto la pioggia. In altre epoche
quel voto sarebbe stato una mazzata definitiva sul movimento, invece
questa volta sono proseguite le occupazioni delle mense e dei teatri, e
poi c’è stata Roma, e dopo Roma ancora cortei e azioni. Un dato su
tutti, il cambiamento di atteggiamento dei cronisti : il Santoro prima
di Roma, equilibrista, e quello post-14, che tiene botta a La Russa.
Guardiamo avanti allora, e per farlo imponiamoci una regola: di ciò che abbiamo fatto non contiamo i danni, ma solo i successi.
E' un esercizio che ci fa bene, perchè questo percorso è frutto
soltanto del nostro lavoro, della solitudine di una generazione che
cresce nella socialità delle occupazioni e nella rabbia dei cortei. Che
parla con il linguaggio della rete e si inventa nuovi codici di
comunicazione, usa i social network per organizzarsi, è meticcia nella
pelle e nei costumi.
Da oggi però è necessario un salto di qualità:
se con le mobilitazioni abbiamo conquistato un riconoscimento, ora è
arrivato il momento di costruire qualcosa di nuovo, di duraturo.
Abbiamo dimostrato di saper agire con radicalità e intelligenza in
piazza, di poter affrontare il dibattito mainstream rimanendo uniti
nelle differenze, di sorprendere con idee nuove chiunque cercasse di
paragonarci al passato.
Se veramente vogliamo farci carico delle
responsabilità che la storia ci sfida ad affrontare, dobbiamo essere
capaci di sostituire ad ogni istituzione marcia una che sia nostra.
Dobbiamo tentare di dare continuità alle nostre reti di socialità,
trasformandole in reti di solidarietà. Dobbiamo costruire l'autonomia a
partire dall'alternativa.
In questo contesto emerge la necessità di inquadrare il significato della parola “precarietà”, per dare una forma alla “generazione P” di cui il movimento studentesco è solo una parte. La precarietà oggi è ontologica,
innerva il lavoro e la vita: un contratto a tempo indeterminato non
garantisce il futuro più di un assegno di ricerca, perchè anche
l'operaio col posto fisso vive con lo spettro della cassa integrazione.
Per
questo non ha senso cercare di confinare la precarietà entro singole
mansioni. Come sta cambiando il concetto di lavoro, così deve cambiare
il nostro modo di organizzarci e di esprimerci. Dobbiamo partire dalla
consapevolezza di essere precari: una nuova coscienza di classe che
supera le vecchie categorie. Precari dei servizi, dell'arte e dello
spettacolo, dell'industria materiale e di quella cognitiva. Certamente
troveremo alleanze più concrete in questa nuova composizione che non tra
i docenti (c'è ancora qualcuno che li aspetta?) o tra i ricercatori
strutturati, spariti un mese fa (a parte rare eccezioni) non appena
ricevuto l'emendamento che li promuoveva in massa ad associati.
Valorizziamo
le differenze: è dalle differenze che nascono le idee, è superando i
confini dei nostri territori che potremo essere più forti per soddisfare
i nostri bisogni: costruire un nuovo welfare, riappropriarci dei
servizi, dalle mense alla mobilità, dei cinema, dell'arte! Ora è il
momento di dire che la storia non è finita, e se vogliamo che tutti ci
prendano sul serio non possiamo far altro che iniziare a scriverne una
nuova...
PISA 24 dicembre 2010 - Tijuana Project