The blacklist

Grandi nomi del capitalismo italiano tra i principali debitori della Monte dei Paschi di Siena

12 / 1 / 2017

Non stiamo parlando della nota serie TV, anche se la trama di questa storia assomiglia a quella di una fiction a sfondo affaristico. O forse ad un vecchio polar di serie B.

Costruttori, albergatori, imprenditori di vecchia e nuova scuola, società di consulenza finanziaria e commerciale, partecipate pubbliche. La lista dei grandi debitori della Monte dei Paschi di Siena, la cui pubblicazione è stata fortemente caldeggiata dal presidente dell'Abi Antonio Patuelli, è lunga e variegata.

C’è la Sorgenia di De Benedetti, che nel marzo del 2015 è stata acquisita dalle banche creditrici con le quali aveva accumulato un debito di 1,8 miliardi di euro, un terzo dei quali con la Mps, che attualmente detiene il 17% della società. L’azienda appartenuta all’imprenditore torinese (che con 8 centrali elettriche operative in Basilicata, 6 miliardi di kWh venduti e 166 milioni di metri cubi di gas gestiti nel 2015 è uno dei colossi del mercato energetico nazionale) è senz’altro il nome più altisonante della lista.

A farle compagnia c’è la Risanamento Spa, società immobiliare con sede a Milano ma di caratura nazionale, fondata, per fusione di precedenti società, da Luigi Zunino, uno degli imprenditori emersi in Italia nella fase post-tangentopoli. La Risanamento, passata nel 2009 alle banche creditrici (Intesa SanPaolo, Unicredit, Bpm, Mps, Banco Popolare) in seguito ad un piano di salvataggio, si trova oggi con il 2% del pacchetto azionario in mano alla banca senese ed un debito con questa di circa 700 milioni di euro. Rimanendo nell’ambito immobiliare troviamo la Impreme della famiglia Mezzaroma, salvata nel 2013 da Mps ed Unicredit con un’operazione di centinaia di migliaia di euro, il costruttore calabrese Antonio Muto, fallito 4 volte nel giro di un decennio, la EstCapital srg, società veneta liquidata nell’aprile del 2016 che in passato ha progettato una grossa speculazione finanziaria nel Lido di Venezia nell’area dell’ex Ospedale.

Tra gli altri grandi gruppi coinvolti c'è la Cisfi, società di consulenza finanziaria e commerciale a cui fa capo la Cis e la gestione dell’interporto di Nola, una delle aree su cui sono stati più evidenti gli intrecci tra imprenditoria, politica e camorra. Numerose sono anche le società a partecipazione pubblica presenti nella lista, in particolare nell’area toscana. Il Consorzio Bonifica dell’Alto Valdarno, l’incubatore d’impresa Fidi Toscana, la UPMC (società che gestisce le Terme di Chianciano) e, soprattutto, la Newcolle srl di Colle Val d’Elsa, indebitatasi per circa 20 milioni di euro a seguito di un’operazione immobiliare naufragata ancora prima di cominciare.

La lista potrebbe andare avanti; ci siamo fermati ai casi più eclatanti ed emblematici. Dietro la lista ci sono storie diverse di crisi e fallimenti, di investimenti arrembanti finiti male, di passi più lunghi della gamba, di manie di grandeur tradite da un mercato asfittico. Ma questa volta non sono le storie di disperazione dei piccoli risparmiatori, dietro le quali si cela una biografia comune segnata in maniera indelebile dalla crisi. No, questa volta parliamo del grande capitalismo italiano, di quello che con le banche è sempre andato a nozze, sia perché ha sempre avuto un’accessibilità al credito facilitata, sia per una convergenza d’interessi che la finanziarizzazione dell’economia ha reso sempre più palese. Circa l’80% dei crediti bancari proviene da quel 10% di risparmiatori più ricchi, e molti di questi sono Non Performing Loans, ossia non più esigibili. Si ribalta così quella vulgata che vedeva anche in Italia il piccolo e diffuso indebitamento privato come origine del più ampio crack finanziario.

È nella struttura storica del “capitalismo straccione”, di gramsciana memoria, nella sua vocazione familistica di fatto e di concetto (grazie alla quale è possibile anche che istituti di credito e grandi aziende abbiano gli stessi nomi all’interno dei consigli d’amministrazione) che una storia come quella del Monte dei Paschi di Siena e dei suoi grandi debitori trova terreno fertile. In una recente intervista fatta su Globalproject ad Andrea Fumagalli, questi ha molto insistito sull’arretratezza cronica del sistema bancario ed imprenditoriale nazionale come una delle origini di una crisi strutturale del Paese che si sovrappone a quella globale, ma spesso si snoda all’interno di registri peculiari e differenti.

I tratti distintivi del capitalismo italiano non lo rendono avulso dai processi di trasformazione che la governance attua continuamente a livello globale, ma quella cultura fatta di malaffare e scarsa managerialità spesso costituisce un substrato di permanenza ed inviolabilità dei blocchi di potere. Questo non solamente per via di faccendieri buoni per tutte le stagioni, abili ad uscire indenni da inchieste e fallimenti, ma soprattutto per quegli intrecci politico-imprenditoriali che fanno sopravvivere un sistema di potere e di interessi al di là dei suoi stessi protagonisti.

Il culto di una responsabilità individuale e giudiziaria, ma mai politica e sistemica, lascito di quel giustizialismo spicciolo nato con Tangentopoli, facilita questa sorta di moto perpetuo proprio perché vede nell’individuazione ed epurazione della “mela marcia” l’elemento di risanamento del sistema stesso. Il piglio forcaiolo con cui i media, gli esponenti politici e gli stessi vertici del sistema bancario stanno affrontando la black list di Mps è un mirabile esempio di tutto questo. Poco importa se dietro a costruttori ed immobiliaristi foraggiati in perdita dalla banca senese si nasconda quel modello di grandi opere e speculazione edilizia che da anni sta devastando il nostro Paese.

Gli istituti di credito sono stati, al pari dello Stato, i principali finanziatori di un modello che si è rivelato fallimentare, anche sul piano strettamente economico Questo perché proprio nell’annuncio dell’apertura di un cantiere infrastrutturale o del “risanamento” di una grande area urbana si afferma in pieno quel rapporto di interconnessione tra rendita finanziaria e capitalismo “produttivo”, che rappresenta uno dei topos dell’economia post-fordista avanzata. Non è un caso che siano questi gli ambiti in cui si è esplicitato quel potere di insolvenza della grande impresa, che viene compensato con un maggior coinvolgimento dei piccoli risparmiatori nelle operazioni di contenimento delle perdite o di ricapitalizzazione delle banche, durante le quali avviene la trasformazione, talvolta forzosa, delle obbligazioni in azioni.

Per queste ragioni il problema non potrà mai essere la “mela marcia”, ma quel sistema di interessi ed affari all’interno di cui essa opera e si riproduce. Certo il caso della Monte dei Paschi e delle altre banche precedentemente salvate con denaro pubblico grida vendetta. Ma l’obiettivo deve essere quello di portare nel discorso pubblico una richiesta di giustizia redistributiva, in grado di spossessare un’intera classe politica ed imprenditoriale. Della gogna mediatica e giudiziaria per i pochi imprenditori coinvolti, tanto cara ai Tribunali o alle vie Solferino di turno, francamente non sappiamo più cosa farne.