Tra conflitto sociale e democrazia radicale. Il caso padovano alle elezioni amministrative del giugno 2017.

14 / 6 / 2017

Pubblichiamo un contributo del Centro Sociale Pedro sulle ultime elezioni comunali tenutesi a Padova, che hanno visto al primo turno la grande affermazione del candidato sindaco Arturo Lorenzoni e di Coalizione Civica.

Sono stati 1.010 i comuni italiani interessati dal primo turno delle elezioni amministrative, tenutosi domenica 11 giugno. Si è trattato (al netto del secondo turno, che si terrà tra meno di due settimane) dell’ultimo appuntamento elettorale prima delle elezioni politiche, che verranno calendarizzate, a meno di clamorosi colpi di scena sulla legge elettorale, nella primavera del 2018.

I partiti tra insuccessi e frammentazione

Probabilmente i risultati politici dell'11 giugno, semmai sia possibile trarre indicazioni nazionali dall’andamento delle elezioni locali, riflettono i tentennamenti e le debolezze di tutte le principali forze politiche. Nessuna di queste è, in questo momento, realmente pronta ad affrontare le legislative da una posizione di forza, nonostante mesi di campagna elettorale perpetua. Lo specchio di una crisi generalizzata di tutto l’arco partitico italiano lo si coglie in almeno due questioni emerse nella tornata elettorale. La prima riguarda il dato dell’affluenza alle urne, fermatasi al 60%, che prosegue il suo trend negativo (8 punti percentuali in meno rispetto alle elezioni che nel 2012 avevano interessato più o meno i medesimi comuni, 2,5 punti in meno rispetto alle omologhe dell’anno passato) e che vede l’Italia oramai assestarsi su dati nord-europei. Come al solito è sempre difficile dare una lettura politica dell’astensionismo, anche se la rottura tra “paese reale” e classe politica si evidenzia maggiormente in fasi come quella attuale, con un governo chiamato, dopo la caduta di Renzi, ad assolvere puramente ad un ruolo di mera continuità nella relazione tra governance europea e gruppi di interesse nazionali. La seconda questione riguarda il minimo storico di preferenze raggiunte dalle liste partitiche, con le compagini politiche costrette sempre di più a nascondersi dietro a simboli mascherati o ai listoni personali. Se è vero che le tendenze verso una personalizzazione sempre più spinta della competizione politica sono una costante dell’Italia post Tangentopoli, è vero anche che una così drastica riduzione delle preferenze legate ai simboli di partito non c’era mai stata, segno di una società che è sempre meno rappresentabile all’interno delle forme partitiche, vecchie e nuove.

A farne le spese è soprattutto il Movimento 5 Stelle, quasi ovunque sconfitto al primo turno e fuori da tutti i grandi ballottaggi. Ad essere clamorosamente sconfitta è la “linea-Di Maio”, che se da un lato ha provato in tutti i modi a rincorrere e scavalcare la destra sul tema delle migrazioni, dall’altro ha gestito al peggio il “pasticcio romano” e le continue faide interne che stanno portando sempre di più i pentastellati sulla via della “normalizzazione”. Non ride neppure il Pd, che se non vede ripetersi la debacle dello scorso giugno assiste ad una contrazione clamorosa di consensi, soprattutto in quelle che una volta erano definite “roccaforti rosse”. Il caso di Geneva è senz’altro il più emblematico, con il candidato del centro-sinistra Gianni Crivello fermo al 33% e costretto a partire da una posizione di svantaggio rispetto a Marco Bucci, uomo di Toti, che ha preso il 38% dei voti. Ma anche in altre città, soprattutto della Liguria e della Toscana, c’è da piangere per il maggior partito di governo, se si confrontano i dati con le precedenti elezioni: a La Spezia si passa dal 52,5% al 25,1%; a Lucca dal 46.8% al 37,%, a Pistoia dal 59% al 37,%. Al Sud Italia è ancora più accentuata la frammentazione politica ed ovunque, dalle principali città ai piccoli borghi, si registra l’incapacità del Partito Democratico di omogeneizzare ed egemonizzare il fronte di centro-sinistra. Il processo inverso sembra avvenire sull’altro versante politico, dove il ricompattamento del centro-destra ha ribaltato i rapporti di forza con i concorrenti politici in alcune delle principali città italiane. Rimane aperto il nodo della leadership di una futura coalizione che si presenti alle prossime elezioni nazionali e si prospetta nei prossimi mesi una bagarre interna i cui risultati sono tutt’altro che scontati e possono indebolire l’intero fronte. Il contrasto tra Salvini, che vede sgretolarsi il modello lepenista come principale punto di riferimento internazionale, ed un Berlusconi goffamente rispolverato è stato messo sotto al tappeto nelle settimane che hanno preceduto le elezioni, ma si conferma come elemento di costante latenza.

Attenzione però; la crisi dei partiti, da tempo irreversibile, non significa crisi di contenuti e idee di cui essi si fanno portatori. La frammentazione che ha caratterizzato l’ultima competizione elettorale contiene al suo interno diversi elementi che dallo spazio globale si proiettano nella dimensione territoriale, seppure in forma peculiare e disarticolata. La tensione tra la vecchia élite neoliberale ed il nuovo blocco di potere populista, che ha condizionato gran parte delle ultime competizioni elettorali europee e mondiali, si riproduce anche in Italia. Ha visto, infatti, emergere in maniera pressoché univoca, nell’agenda politica di questa campagna elettorale, il tema della sicurezza e quello delle migrazioni, non a caso al centro delle due leggi (Minniti e Minniti-Orlando) che hanno completamente stravolto lo Stato di diritto nel nostro Paese e che vedono i sindaci sempre più immersi nel ruolo di controllori dell’ordine pubblico all’interno dello spazio urbano.

Il civismo ed il caso padovano

L’ultimo elemento che emerge dalla tornata elettorale è la vivacità che ha caratterizzato il cosiddetto mondo del “civismo”. Sarebbe un errore leggere questo fenomeno in termini omogenei o reticolari, ma senza dubbio alcuni processi che hanno portato alla formazione di liste civiche ed alla loro affermazione elettorale introducono interessanti elementi di novità all’interno del panorama politico. Senza dubbio il “civismo” intercetta la conclamata crisi dei partiti e, laddove è stato connotato da forme partecipative genuine e non politiciste, può essere in grado di aprire spazi di discussione pubblica e di movimentazione sociale sui principali temi che riguardano “il governo delle città”, al di là delle competizioni elettorali.

Il caso padovano rappresenta probabilmente la rottura più grande ed inaspettata degli schemi elettorali tradizionali. Innanzitutto per la grande affermazione di Arturo Lorenzoni, sostenuto da Coalizione Civica, che ha ottenuto, contro ogni pronostico, il 22,83% dei consensi, vale a dire 22.357 voti. In secondo luogo perché questa affermazione avviene non in un paesino o un piccolo centro di provincia, ma in una città importante e piena di contraddizioni, tra le principali chiamate al voto in questa afosa domenica di giugno.

Nonostante la lista di Lorenzoni sia fuori dal ballottaggio, che vedrà competere il sindaco leghista uscente Massimo Bitonci e Sergio Giordani, sostenuto dal centro-sinistra, il suo successo politico è di quelli in grado di creare una rottura all’interno dei rapporti di forza cittadini. Questo, oltre al dato numerico di cui si è detto, perché il programma politico del candidato sindaco ha visto contribuire in maniera importante un pezzo di tessuto conflittuale della città, si è nutrito grazie all’apporto degli spazi occupati, delle realtà di sport popolare ed antirazzista, di percorsi politici come Padova Accoglie, che affrontano il tema dell’accoglienza ai migranti attraverso rivendicazioni conflittuali di nuovi diritti e di una nuova cittadinanza universale. Anche la temporalità della gestazione è stata fondamentale, perché ha colto quel momento politico in cui si andava a definire, nella fase precedente al referendum costituzionale, una contrapposizione frontale e diffusa al Partito Democratico ed al suo stile governamentale.

Il boom di Lorenzoni e di Coalizione Civica è dunque proporzionale alla capacità, da parte dei soggetti che a vario titolo hanno contribuito a costruire ed alimentarne il percorso, di promuovere senza inibizione istanze radicali di giustizia sociale, ambientale, di lotta alle discriminazioni, non finalizzate al momento elettorale, ma con possibilità di irradiarsi nel tempo e nello spazio. La forza con cui questi temi sono stati portati all’interno della campagna elettorale ha permesso alla civica padovana di sottrarsi a quell’agenda politica securitaria che ha fortemente condizionato il dibattito pubblico e politico in tutte le città. Il tema della sicurezza urbana, molto caro al ministro dell’Interno Minniti, è stato di fatto ribaltato e trasformato in una richiesta collettiva di sicurezza sociale ed economica, fondamentale per qualsiasi tentativo di rifondare un concetto contemporaneo di cittadinanza.

La democrazia radicale come scelta politica praticata

È chiaro che esistono non poche contraddizioni all’interno di questo percorso e della stessa affermazione di Coalizione Civica. In primis il fatto che quasi la metà dei consensi a Lorenzoni siano arrivati direttamente dalla lista che portava il suo nome, inserendosi a pieno nel fenomeno della personalizzazione spinta della politica di cui si è già accennato. Va riconosciuto a Lorenzoni, che era ai più sconosciuto prima della nascita di Coalizione Civica, non tanto un carisma innato, quanto il coraggio di volersi misurare fin da subito con le pratiche di democrazia radicale. Due sono stati gli elementi che hanno fatto vivere nel concreto un concetto che spesso viene usato in chiave puramente evocativa. Il primo è l’assemblearismo, che ha introdotto una metodologia inedita all’interno della rappresentanza padovana, anche se non sappiamo ancora quanto possa produrre in termini di innovazione politica e soggettivazione. Il tema della decisionalità collettiva non è secondario in questa fase, perché va ad impattare uno dei topos su cui si stanno ridisegnando gli assetti del comando a livello globale, ossia la sottrazione organica di potere decisionale e spazi di libertà nei confronti degli individui, degli enti di prossimità e, in generale, delle comunità territoriali. Il secondo elemento riguarda le modalità con cui è stata condotta la campagna elettorale, che ha vissuto di assemblee, di gente in piazza e nelle strade, di momenti reali e fisici di incontro. Una modalità che volutamente ha contrapposto i corpi vivi a quelli virtuali, rompendo la retorica di quella finta “democrazia della rete”, di cui per primi si sono fatti paladini i 5 Stelle, e provando a superarne i limiti.

Il successo di questo percorso, infine, è stato possibile anche grazie ad una volontà collettiva di rompere qualsiasi legame con il ceto politico tradizionale, costringendo le stesse realtà della sinistra residuale che hanno sostenuto la coalizione a sciogliersi completamente dentro il progetto, senza alcuna velleità di utilizzare simboli propri o di speculare sull'operazione. Allo stesso tempo l’esperienza padovana va letta nella sua possibilità di superare uno schema neo-municipalista in cui l’intreccio tra movimenti e piano istituzionale si dava nelle vecchie forme che abbiamo in parte vissuto tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del decennio successivo. Allo stesso tempo è necessario ribadire il concetto che, nell'attuale quadro politico, non è edificante costruire architetture di pensiero che tentino di accorpare e generalizzare processi ed esperienze cittadine che si configurano, al momento, come anomalie. 

Per tutte queste ragioni, si apre adesso una partita fondamentale, in cui anche il consiglio comunale diventa terreno di battaglia politica rispetto alle tante questioni portate avanti nel programma elettorale, al di là degli esiti del ballottaggio.

Nuovi rapporti di forza

Arturo Lorenzoni ha dunque scompaginato il primo turno elettorale padovano, ma soprattutto ha avuto il merito di rompere un equilibrio politico decennale, in cui è maturata una governance cittadina che ha alimentato negli anni un circolo vizioso tra potere ed affari. Lo ha fatto soprattutto a sinistra, erodendo gran parte di quel consenso su cui puntava Sergio Giordani, arrivato secondo con il 29,2% dei voto. Quello che maggiormente colpisce all'interno della coalizione di centro-sinistra è il crollo verticale registrato dal Pd, che nel primo turno del 2014 aveva sfiorato il 25% e che oggi non arriva al 13,5%. In termini assoluti il bacino elettorale del Partito Democratico passa da 26.700 voti a 12.028, arrivando a demolire completamente quella rendita politica conquistata con 20 anni di governo della città e relative clientele. Se il dato non si discosta molto dal trend nazionale che ha caratterizzato la principale forza governativa, a Padova la sconfitta del Pd è molto significativa in termini politici, perché viene definitivamente destituita quella classe politica che, nella linea di continuità che lega il partito di Zanonato & Co. ai suoi predecessori (Ds, Pds e Pci), ha costruito le proprie “fortune”, dagli anni Settanta in avanti, proprio facendo la guerra ai movimenti.

Vince il primo turno Massimo Bitonci, che con il 40,22% fa meglio di 3 anni fa, nonostante il mancato apporto dell’ex fascista Saia, apparentatosi con il Pd dopo aver fatto cadere la giunta Bitonci nel novembre del 2016. Il leghista di Cittadella ha corso senza concorrenti a destra (il misero 0,3% di Casapound non merita neppure cronaca) ed è riuscito per questo a catalizzare le preferenze di quella parte di città che ancora vive i riflessi del benessere dei decenni passati e trasferisce le frustrazioni dell’impoverimento in atteggiamenti intolleranti e razzisti. Il programma di Bitonci è stato chiaro: sicurezza, città militarizzata e fine di qualsiasi progetto di accoglienza. Opzioni chiaramente nemiche che però, in termini di consenso elettorale, hanno ottenuto meno di quanto lo stesso Bitonci si aspettasse. Fa ampiamente riflettere il fatto che questo programma abbia sfondato particolarmente nelle aree più periferiche e marginali della città, dove maggiormente si vivono le contraddizioni, come accade in altri centri urbani europei, della guerra orizzontale tra classi subalterne “autoctone” e migranti. Nelle stesse aree abbiamo avuto percentuali di astensione più alte rispetto al centro storico ed ai cosiddetti “quartieri rossi”, a testimonianza di come qui esistano ancora, per le realtà che lavorano proprio sul terreno della soggettivazione delle contraddizioni, margini di aggregazione ed accumulazione sociale e politica.

Tornando al sindaco uscente, al di là dei proclami del giorno dopo, è fuori di dubbio che puntasse all'elezione diretta, senza passare per la fanghiglia del ballottaggio che si appresta a diventare una partita assolutamente non pronosticabile.  Non entriamo nel merito di questa contesa, perché riteniamo che la questione del “governo della città”, fino al prossimo mandato, sarà un terreno duro, sperimentale di scontro, con chi si opporrà, e di sinergia con chi appoggerà le istante che i movimenti sociali della città saranno in grado di articolare sulle contraddizioni materiali, quali precarietà e mondo giovanile, formazione e diritto alla città, salute e diritti in generale. Quello che ci interessa cogliere è il senso comune di possibilità che esiste all'interno di una base sociale composta da oltre 22.000 persone, al fine di attivare processi radicali di cambiamento che vadano ben oltre le aule dei consigli comunali e di giunta.

Centro Sociale Pedro