Tra urne e realtà: cosa ci dice l’ultima tornata elettorale

26 / 9 / 2020

Una premessa ovvia: noi siamo antitetici alla democrazia rappresentativa e allo stesso concetto di “rappresentanza”. Un lungo processo storico, all’origine dello stato moderno, ha costruito il modello della rappresentanza come forma unica, inevitabile, necessaria della sfera del politico, provando a rimuovere e occultare tutte le alternative possibili. La crisi della “rappresentanza” come principio costituente del “politico” moderno è sotto gli occhi di tutti, non solo sul piano teorico; è incarnata nelle lotte dei nuovi movimenti, dove viene praticata una democrazia immanente, orizzontale, senza leader né capi, espressa nella forma dell’assemblea e della costruzione del potere decisionale dal basso.

Detto questo, però, non possiamo pensare che un processo tendenziale sia per ciò stesso attuale, compiutamente realizzato. Il declino della democrazia rappresentativa e dello stato-nazione, per quanto inesorabile, non è rinchiudibile nella logica dell’evento unico e improvviso, ma è un processo storico dispiegato sulla temporalità di lunga durata. Un tempo di transizione dagli esiti imprevedibili, ma che apre alla possibilità di costruire dal basso nuove istituzioni del comune, più giuste, più libere, più democratiche. E’ in questo campo di forze che si inseriscono i movimenti e la loro autonomia costituente, per distruggere il vecchio e costruire il nuovo, per costruire un processo rivoluzionario.

Anche il fenomeno dell’astensionismo, per quanto rilevante e ormai fisiologico nei fenomeni elettorali, non può avere una lettura puramente meccanica, statistico-numerica. Se infatti l’astensionismo è un dato politico che esprime la crisi della rappresentanza, c’è da dire che l’ultima tornata elettorale, che comprendeva elezioni regionali e referendum costituzionale, ha visto una partecipazione in aumento. Come sempre nelle epoche di crisi e transizione ci troviamo di fronte a fenomeni complessi e contradditori, che bisogna saper leggere in maniera duttile e flessibile.

Le elezioni sono pur sempre degli indicatori per poter leggere, seppure in filigrana e sottotraccia, alcune tendenze della cosiddetta opinione pubblica politica, che comunque incarna idee, valori, interessi reali che è sempre bene interpretare ed analizzare.

Ricordiamo Gramsci, che in una nota scritta in carcere nel 1930 osservava: «la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati».

Per quanto riguarda i risultati, il dato più rilevante sembra il declino della Lega salviniana, soprattutto nel tentativo di creare un partito nazionale di tipo “sovranista”. Quello spazio, a destra, è già occupato da Fratelli d’Italia, che infatti ha incrementato il suo consenso, conquistando addirittura il governo regionale delle Marche.

Ma in un’altra operazione Salvini ha clamorosamente fallito: non è riuscito l’obiettivo di conquistare la Toscana, come era accaduto in precedenza con l’Emilia-Romagna. Si tratta, per il fu “capitone”, di una sconfitta strategica, poiché viene meno il tentativo di dare una spallata al governo Conte, ma soprattutto viene meno ancora una volta la possibilità di giocarsi la carta di aver sottratto un simbolo al campo avverso. Il governo sostanzialmente regge alla prova, seppure con la difficoltà rappresentata dal clamoroso calo dei 5 Stelle e la evidente necessità da parte del Pd di riassestare gli equilibri con l’alleato di governo.

Certo, i 5 Stelle possono rivendicare il successo del referendum per il taglio dei parlamentari, una banale proposta populista e demagogica, fatta apposta per solleticare la pancia dell’elettorato, ma con una ben misera efficacia dal punto di vista pratico. Ben altri i problemi: un vero reddito di cittadinanza incondizionato; il diritto universale, e non per pochi, alla salute ed alla cura, contraddizione emersa prepotentemente con il Covid; la tutela del mondo –ambiente in cui viviamo, della riproduzione della natura e del vivente in tutte le sue espressioni; una riforma fiscale che faccia pagare di più a ricchi e super-ricchi e meno i poveri e altro ancora.

Altro che tagli dei parlamentari! Anzi, per chi crede nei principi della democrazia rappresentativa - e non siamo tra quelli - dovrebbe essere esattamente il contrario: estendere le possibilità di rappresentanza, non diminuirla. In ogni caso il successo referendario non riesce a mascherare il crollo politico ed etico dei pentastellati, la cui liquidità e ambiguità populista ne ha fatto esplodere tutte le contraddizioni.

Certamente Zingaretti ha fatto, dal suo punto di vista, la mossa tattica giusta nell’appoggiare il referendum pur di salvare il governo e non far collassare il Pd. In termini elettorali l’operazione è riuscita, ma ciò non toglie che questo partito, nonostante  il tanto sbandierato rinnovamento, non si stia tanto discostando dal modello renziano in auge negli anni scorsi. Infine due parole sulla cosiddetta “sinistra” fatta di partiti, partitini e liste civiche, che ha dimostrato ancora una volta la corsa nichilistica verso l’abisso.

Nel complesso è evidente che il sistema dei partiti e la “forma partito” tradizionale siano in profonda crisi: i  risultati regionali confermano, anzi rafforzano, la personalizzazione mediatica della politica, che è stata accentuata dall’emergenza Covid. Anche questo apre spazi nuovi, di riflessione teorica e avanzamento delle pratiche di movimento.

La questione è ancora più accentuata se si osserva il “laboratorio Veneto”: come era prevedibile, c’è stato un plebiscito per Luca Zaia, un crollo epocale dell’opposizione, a cominciare dal candidato Arturo Lorenzoni  e dal Pd, per finire all’arcipelago di sigle e siglette.

Certo, Zaia è un abile animale politico, ha sfruttato fino in fondo l’emergenza Covid, non solo sul piano mediatico, ma andando tra la gente, nei paesi e nei comuni del territorio, creando un immagine forte di ”potere pastorale”, come nella tradizione democristiana e dorotea che sa incarnare perfettamente. E ovviamente occultando e facendo dimenticare le devastazioni ambientali e territoriali portate dalla sua amministrazione, compresa la sanità, con una politica classicamente neoliberista di privatizzazioni selvagge ed esproprio dei beni comuni. Zaia ha anche surclassato Salvini e rappresenta una Lega forse più vicina alla sua base sociale originaria nell’epoca della sua prima fondazione bossiana: da un lato legata alla vecchia Democrazia Cristiana e dall’altro capace di avere un radicamento territoriale fatto soprattutto di istanze autonomiste, incompatibili con un progetto nazionalista.

Il Pd in Veneto è letteralmente crollato e, al di là dell’assenza nel territorio e dell’incapacità politica di rappresentare una vera opposizione alla destra, vi è una ragione strutturale che sta all’origine di questa debacle: la rimozione totale del conflitto sociale e la logica di continuo attacco alle lotte e ai movimenti. Oggi lo scenario in Veneto è interessante, poiché i movimenti si pongono come unica soggettività in grado di contrastare le politiche neoliberiste della Lega di Zaia. Come diceva Macchiavelli, la democrazia è un terreno di conflitto, si nutre del conflitto in un processo costituente sempre aperto, in grado di innovare e creare nuove istituzioni adeguate ai bisogni comuni.