Trento - Morte di violenza e ipocrisia

Un commento del Centro Sociale Bruno sul femminicidio di Deborah Saltori avvenuto lo scorso 22 febbraio.

6 / 3 / 2021

La sera del 22 febbraio a Cortesano, frazione di Trento, Lorenzo Cattoni ha ucciso Deborah Saltori. È l’undicesimo femminicidio del 2021 e, per l’undicesima volta in soli 53 giorni, un uomo ha deciso che una donna doveva morire, per mano sua, per sua iniziativa, per suo volere. Un commento del Centro Sociale Bruno.

Siamo stanche di assistere a questa mattanza e a tutto l’ipocrita circo mediatico e politico che ne consegue, sempre e ogni volta. C’è stato tempo per il dolore, ce ne sarà sicuramente anche in futuro, ma riteniamo che sia arrivato il momento, già da lungo tempo, di metterlo da parte e lasciare che a parlare sia solamente la profonda rabbia che questi avvenimenti nutrono quotidianamente.

Ogni volta che una nostra sorella viene ammazzata da un uomo, non solo ci sentiamo più insicure, più addolorate, più in pericolo nelle nostre città e nelle nostre case, ma dobbiamo anche sopportare narrazioni tossiche proposte da giornalisti che non intendono imparare a raccontare la realtà per quello che è e esponenti politici – maschi – che possono concedersi il lusso di dire che “rischiamo di sentire questi avvenimenti come lontani da noi”. No, Sindaco Ianeselli, noi non corriamo questo rischio perché le nostre sorelle ammazzate ci ricordano tutti i giorni che queste cose accadono e che accadono tutte intorno a noi, costantemente. Non corriamo neanche il rischio di “non trovare le parole per esprimere il dolore”, perché è un dolore che parte dalle ossa e racconta di come ci si sente a essere vite non prese in considerazione fino in fondo, checché ne dica il Presidente Fugatti. Le parole le abbiamo e sono tutte contro questo sistema valoriale e politico che insiste nel mantenimento dello status quo, confinando noi donne e i nostri corpi ad un ruolo subalterno, tentando costantemente di mettere a tacere la nostra autodeterminazione, anche a costo di toglierci la vita.

E quando ci tolgono la vita parte la corsa a chi racconta più dettagli di come siamo state ammazzate e di quanto, in fondo, “lui ci amava ma non sapeva esprimerlo” o, in alternativa, qualunque altra patetica scusa voi vogliate. Vi sentite meglio a divulgare il numero esatto di coltellate che un uomo ha inferto su un corpo di donna? Credete che il vostro lavoro sarà notato maggiormente se riproporrete la giostra del dolore, descrivendo nei dettagli gli ultimi istanti di vita di una donna? Pare quasi sentiate la necessità di umanizzare una donna che muore, come se ci fossero dei dubbi a riguardo. Si, probabilmente hanno tutte avuto paura, ma probabilmente hanno anche tutte maledetto il giorno in cui quell’uomo è nato. O quello in cui l’hanno incontrato. Anche qui, signori, non siamo un concentrato di buoni sentimenti e carità materna, levatevi questo clichè dalla mente: siamo inferocite.

Dobbiamo anche sopportare che l’ultima immagine che resta di queste donne le ritragga accanto al loro stesso assassino, con un bel sorriso stampato in faccia, come se fossero stati una coppia felice. Mettete la foto dei lividi, delle botte, dell’umiliazione. Questo non viene fatto per pudore, e potrebbe anche essere corretto, ma allora dove la trovate la faccia tosta di mettere dei sorrisi a corredo di un femminicidio?

Allo stesso tempo, puntuali, le istituzioni si sprecano in parole di denuncia e di cordoglio, con una mano firmano petizioni per le vittime, mentre con l’altra tagliano i fondi ai centri antiviolenza, all’educazione di genere e all’affettività nelle scuole, e a tutte quelle misure che potrebbero veramente far si che non ricapiti più. Non ci interessano le vostre condoglianze dopo che ci hanno ammazzate, vogliamo avere la garanzia di restare in vita.

Forse il solo momento in cui vi rendete conto della violenza che quella donna subiva, è quando non c’è più. Volete sapere tanto della sua morte quanto, probabilmente, state ignorando chi, ancora in vita, si trova in quelle stesse difficoltà.

E non diteci di denunciare, o di andarcene. Perché Deborah, e tante altre prima di lei, lo avevano fatto, ma non è servito. Perché dobbiamo essere noi, le vittime, a dover scappare, ad avere paura di uscire e di parlare? Non dovrebbero essere i nostri carnefici a venire allontanati e isolati dalle comunità? Non sarebbe più giusto che fossero loro ad avere paura di farsi vedere in pubblico, una volta che si viene a sapere quello che ci hanno fatto?

In questo caso, e in tanti altri, non c’è “era un bravo ragazzo, chi se lo aspettava” che tenga. In questi sei anni di violenze continue, dov’era la comunità di queste persone? Tutti coloro che conoscevano Cattoni, non si sono forse resi conto di ciò che stava facendo a Deborah? Se la risposta è sì, con quale coscienza hanno deciso che la vita di una donna valeva meno del loro quieto vivere, e quindi di fare finta di non vedere? Come hanno potuto lasciare da sola, alla mercé di un uomo violento, una donna che era parte della loro comunità? Mantenere il ruolo e l’immagine di lui come lavoratore e padre di famiglia valeva forse la vita di lei? Una fiaccolata e una raccolta fondi, per quanto quest’ultima sia indubbiamente necessaria, non la riporteranno in vita. E senza dubbio, i suoi figli avrebbero preferito avere ancora la loro madre, e non aver dovuto vederla subire anni di abusi da un uomo che secondo la stampa li amava molto, tanto che alla fine ha deciso di portargliela via per sempre.

Siamo stanche di vivere nella consapevolezza che, se abbiamo la sfortuna di incontrare l’uomo sbagliato, questo può decidere di toglierci la vita. Siamo stanche di sentirci impotenti, la scelta tra denunciare e non farlo è un’illusione, in ogni caso finiamo ammazzate. Siamo stanche di vedere la reputazione di un uomo messa davanti alla nostra vita. Siamo stanche di essere costrette a scegliere tra vivere e sopravvivere. Siamo stanche di sentirci sole, di vergognarci di essere vittime, di avere paura di quello che la nostra comunità può pensare di noi. Siamo stanche di essere ricordate e compiante dopo essere state ammazzate, vogliamo vivere.