Tumultuosa/Mente... presente!

20 / 12 / 2010

Sono le 17.30 di un caldissimo martedì invernale: ci ritroviamo alla Sapienza e siamo ancora tantissimi. Abbiamo le gambe stanche, le facce arrossate, gli occhi lucidi ed i vestiti impiastricciati dopo una giornata di lacrimogeni e sogni, lacrimogeni e voglia di esserci, lacrimogeni e gioia. 

Qualcuno di noi zoppica per le manganellate ricevute; qualcun altro non c'è, ce l'hanno strappato, credendo forse di intimorirci. 

Le telecamere sono ancora lì, come lì e in tutte le altre focose città d'Italia erano state nei giorni precedenti, nei giorni che anticipavano il “Grande 14”. Cercano di catturare la nostra energia, le nostre intime convinzioni, i nostri linguaggi, le nostre emozioni, la nostra vita. Sono lì per sbatterci il giorno dopo, come dei mostri, in prima pagina. Sono lì, perché sanno che lì si gioca il presente di un futuro assente. 

Le telecamere ed il loro occhio “mediatizzante” ci riprendono mentre abbiamo ancora voglia di saltare e cantare, mentre con foga urliamo ad un Paese sordo e miope che noi siamo lì ora, siamo consapevoli che “Tutti insieme famo paura”. E' questo uno dei nostri coretti preferiti. Usiamo un “romanaccio” sbeffeggiante sapendo che di paura si tratta: è il nostro campo d'azione, la nostra scacchiera di battaglia. 

Il 14 dicembre 2010 i Palazzi del Potere e coloro che all'interno vi morivano hanno esperito il panico. Si sono asserragliati dentro un vuoto che rappresentano e dal quale sono a loro volta ben rappresentati. Noi abbiamo vissuto fuori, abbiamo assaggiato la prepotenza di una zona rossa, di muri apparentemente invalicabili costituiti di blindati, di diritti che ancora una volta volevano toglierci o impedirci di esercitare. Nelle grandi giornate di piazza che hanno preceduto il 14 abbiamo centinaia di volte bloccato le nostre città, a Roma quel giorno abbiamo superato centinaia di blocchi, abbiamo abbattuto mille barriere, ci siamo innalzati tanto in alto quanto il fumo nero che per un giorno infinito ha avvolto e “bruciato” la Capitale. 

Lo scenario che si è dipanato il 14 romano ha superato qualsiasi previsione, eppure le menti più lucide erano preparate da tempo a cogliere una giornata straordinaria. 

Hanno parlato di '68, di '77, di Genova 2001; Tano D'Amico, con sagace intelligenza ci ha riportato alle barricate francesi del 1848, ma sono tutte letture più o meno imprecise. Sono spettri, demonizzazioni o fraternizzazioni che stavolta non possono reggere. Abbiamo assistito ad una ricomposizione sociale stupefacente che non trova sinonimi nel passato perché si sviluppa in un contesto che non ha mai conosciuto epoche simili a questa. Ciò che si è dato quel giorno, e che altro non è se non solo un inizio vertiginoso di una nuova, lunga stagione di lotte, segna una linea di demarcazione costituente con tutto ciò che ci ha preceduto. E' una discontinuità di mondo e di vite che abbraccia in maniera coerente e consapevole una ricchezza di esperienze precedenti, ma che presenta l'opportuna e necessaria intelligenza per poterle superare. Finalmente l'ha fatto. 

Io dico, noi non siamo il 1848, il '68, il '77, il 2001, quelle pratiche, quei momenti e quei movimenti sono dentro ciascuno di noi, ma ora sono rovesciate e vomitate all'esterno in maniera diversa, con una terribile e urgente volontà di prendere parola. Ciò a cui si assiste è quindi in prima istanza un'agile ricomposizione personale con la storia e con uno smaliziato e tragico presente che ci ha colto pronti e preparati nel momento in cui ve n'era bisogno.

L'appuntamento per gli studenti universitari è previsto la mattina del 14 alle ore 9.30 presso il piazzale Aldo Moro davanti alla Sapienza. Carichi di rabbia e colmi di potenza ci siamo avvicinati, stretti in cordoni, verso un centro città devastato da menzogne e tracotanza. Non dimenticherò mai la determinazione insita nelle nostre voci, nei nostri occhi, nei nostri corpi. Quella mattina si è aperta una marcia sul presente. E' stata una questione di fiducia nei confronti di chiunque fosse al nostro fianco e di sfiducia data non solo a Berlusconi, ma a tutta una classe politica che abbiamo deciso di delegittimare. 

Abbiamo camminato fino a che non ci hanno detto che ancora una volta si stavano prendendo gioco di noi, volevano umiliarci. E' arrivata come un fulmine la notizia della compravendita dei voti, dell'illusorio successo del Premier. 

I passaggi successivi sono stati prima lenti e poi veloci. Un silenzio ci ha colto, un silenzio che pesava come un macigno ridondante. Abbiamo chinato le teste, per pensare, per riflettere, per trovare e provare singolarmente attimi di interiorizzazione e metabolizzazione. Come una pentola a pressione caricata eccessivamente e senza valvola di sfogo siamo esplosi, abbiamo contribuito all'accelerazione di un processo nel quale siamo stati costretti, nel quale, ora, ci vogliamo stare, sul quale non vogliamo più delegare a nessuno. 

Dopo un'ora dal miserabile ed indegno voto di fiducia, abbiamo sentito l'eco delle prime bombe carta, fortissime da far sobbalzare il cuore di ciascuno di noi, da far battere i cuori all'unisono. Chi era alla testa del corteo ha guadagnato per tutti uno spazio fisico e politico condiviso, che ha rovesciato la concezione ordinaria e vetusta dello stare in piazza. 

Abbiamo camminato celermente sul Lungotevere diretti verso una Piazza del Popolo per renderla degna di portare quel nome. 

Finalmente non avevamo più paura di niente, di nessuno. Ci siamo battuti contro le forze dell'ordine perché le abbiamo intese come squallide mediazioni del potere: ovviamente non erano loro il fine della nostra rivolta. 

Abbiamo liberato Piazza del Popolo, ci siamo liberati. 

Hanno parlato di violenza e di violenti, di buoni e di cattivi, hanno cercato ancora una volta di avvolgerci con una subdola costruzione semantica, madre di distruzione, assetata di potere. Chi era lì invece, non potrà mai scordarsi gli odori e i sapori di una dicotomia che non si sviluppa secondo i due filoni nei quali hanno tentato di incastrarci. La violenza c'è e la vediamo ogni giorno, la violenza, figlia di arroganti provocazioni, è stata attaccata da una forza legittima che ha conosciuto la sua pedana di lancio in centinaia di migliaia di donne e uomini consapevoli e stanchi di subire, centinaia di migliaia di menti unite. 

Dopo aver chinato la testa, l'abbiamo risollevata. Piazza del Popolo era lì davanti a noi come un'incredibile cartolina di rabbia, era troppo piccola per contenerci tutti e noi felici, con “gioia e rivoluzione” nel cuore, abbiamo applaudito l'insorgenza tumultuosa, abbiamo applaudito il coraggio, abbiamo applaudito la nostra capacità di toglierci le vesti che ci stavano stritolando. A Roma quel giorno, non erano solo i blindati ed i cassonetti a bruciare, era il nostro ardore che ruggiva e si infuocava, le nostre catene che slegate brindavano ad un nuovo presente, tutto da definire, tutto da abbracciare, tutto da vivere, tutto da lottare e da conquistare. Senza paura, perché “non bisogna avere paura per essere liberi!”