«Tutto il mondo è un palcoscenico». Sulla miseria della sinistra istituzionale.

13 / 12 / 2017

Un cerchio che si chiude (o che non si è mai aperto)

«Tutto il mondo è un palcoscenico». Questo celebre aforisma campeggia sul teatro shakespeariano di Londra, il Globe Theatre, ma in realtà è stato coniato da un celebre autore latino del I secolo, Petronio, autore del Satyricon: «tutto il mondo è recita, rappresentazione, gioco di specchi ed illusioni».

L’assemblea di fondazione a Roma del nuovo soggetto unitario della sinistra, l’ennesimo partitino della “vera sinistra-sinistra”, visti i protagonisti ed attori, potrebbe essere annoverata come rappresentazione tragicomica, grottesca, surreale.

Liberi ed eguali, già nella sua formulazione nominalistica, civetta con l'origine dei grandi movimenti comunisti e libertari sviluppatisi nel fuoco delle lotte, tumulti ed insurrezioni dalla rivoluzione francese in poi, lungo l’800 ed il’ 900 e ancora oggi in molti punti di resistenza contro il nuovo ordine imperiale.

Ma quali “liberi ed eguali”: si tratta di una lista elettorale che ambisce a diventare partito. Così l’ha già definita D’Alema, - vero Deus ex Machina dell’intera operazione - che punta ad una quota elettorale tra il 6 e il 10 per cento, che permetta di avere un ruolo nella formazione delle future e variabili alleanze di governo.

Più che autonomia del politico, categoria che ha pure una sua dignità per quanto nemica dell’autonomia del proletariato sociale, si ha a che fare con la politique d’abord di craxiana memoria. Il trionfo del principio della politica senza princìpi, in cui ciò che conta non è tanto l’impegno etico-politico al servizio della polis, la qualità di un programma per la giustizia sociale, bensì il dato numerico del consenso relativo sul piano elettorale, tale da permettere di ottenere una qualsivoglia rappresentanza parlamentare, occupando qualche posizione di potere del tutto autoreferenziale.

La macchina che fonda il nuovo partito è una macchina di simulazione e recitazione, con vecchi attori, vecchi registi, vecchi trucchi. La stessa rievocazione di una fantomatica società civile è solo una proiezione fantasmatica e spettrale di qualche intervento costruito a tavolino, per creare l’illusione di un rapporto tra partito e corpi intermedi. Il "nuovo" partito soffoca, sovradetermina e marginalizza proprio la logica del civismo: l’idea delle coalizioni - civiche, sociali, politiche - ha perlomeno, nella forma se non nella sostanza, un’indicazione di pluralità di soggetti, dotati di una certa autonomia, costruiti dal basso con processi partecipativi e democratici, liberi di scegliere le proprie alleanze. Per quanto contraddittorio e inflazionato nel lessico politico contemporaneo, il civismo ha un'essenza assai lontana dalla forma partito. Una contraddizione che non tarderà a manifestarsi ovunque, al di là delle sirene e dei squilli di tromba.

Ma conosciamo bene questi signori ed elencare tutte le loro malefatte sarebbe persino banale. Quello che più interessa è spingere in profondità l’analisi strutturale, per comprendere la coazione a ripetere di vecchi e ormai obsoleti percorsi da parte della sinistra istituzionale e la loro inadeguatezza ad affrontare il nuovo orizzonte delle lotte, dei conflitti, della liberazione sociale nell’ epoca del declino degli Stati-nazione e di crisi irreversibile della rappresentanza. 

In questi anni, molti discorsi provenienti dall’ area di Sinistra Italiana, da Human Factor in poi, hanno esaltato la funzione del civismo come forma innovativa della politica. Processi di aggregazione dal basso, aperti e partecipativi, coalizioni civiche e sociali dotate di meccanismi decisionali del tutto diversi, se non antitetici, a quelli della forma partito.

Un tentativo di coniugare il politico con il sociale, l’orizzontalità delle dinamiche della società civile con la verticalizzazione della gestione del potere. Non ci abbiamo mai creduto e non tanto per purezza ideologica o astratto massimalismo altrettanto autoreferenziale, bensì per il totale mutamento di paradigma nella gestazione delle nuove forme del comando imperiale.

Il simulacro della rappresentanza e dell'autonomia del politico

Il vecchio quadro di riferimento nazionale si va dissolvendo, così come il rapporto tra Stato, partiti, società civilepopolo, ovvero tutta l’impalcatura giuridica, politica, costituzionale del diritto borghese. Un diritto storicamente determinatosi nelle varie fasi dell’accumulazione capitalistica: dallo Stato liberale, al colonialismo, all’imperialismo, alla produzione fordista, allo Stato-piano.

Ebbene, questo orizzonte di senso si sta frantumando: si tratta di un processo, non di una rigida classificazione. Bisogna quindi coglierlo nella sua tendenzialità, come ci hanno insegnato i marxisti rivoluzionari: in primis Lenin nella sua analisi teorico-pratica dell’imperialismo, dove un vecchio ordine stava per essere sostituito da una nuova configurazione del potere mondiale del capitale complessivo, ossia il «Capitalista Collettivo» come già aveva intuito Marx. 

Il nostro impose l’azione soggettiva d’anticipo rispetto alla complessità globale di quella determinata fase dello sviluppo capitalistico; un’analisi strutturale finalizzata all’azione rivoluzionaria, già «proiettata sulla tendenza», l’internazionalizzazione delle lotte proletarie e la liberazione dei popoli dal dominio coloniale. All’altezza di quella contraddizione, né sopra, né sotto, né patrocinando la fase della rivoluzione democratico-borghese in Russia - come passaggio ineluttabile e necessario -, né registrando in maniera del tutto meccanica la questione nazionale in un Paese arretrato sul piano industriale, in gran parte ancora contadino e feudale.

Il metodo leninista della tendenza è giusto, ma il contesto oggi è mutato: il vecchio imperialismo - la politica di potenza espansiva dei vari Stati nazionali, la loro concorrenza sul mercato mondiale per la realizzazione del plusvalore e l’accumulazione di capitale su base nazionale - è diventato un limite per il capitale stesso nel processo di globalizzazione compiuta. I flussi finanziari e produttivi devono scorrere liberi, senza confini e senza barriere, senza intoppi ed ostacoli, realizzando pienamente il concetto marxiano di sussunzione reale.

La figura del potere sovrano deve riadeguarsi a questi processi su scala planetaria; si tratta di una vera e propria dislocazione, un mutamento di forma della sovranità, una metabasis eis allo genos: il comando imperiale non è un moloch, piuttosto una rete transnazionale, una combinazione di poteri finanziari e multinazionali, potentati economici, Stati, oligarchie dominanti, comunità scientifiche, apparati mediatici. 

Le vecchie forme della sovranità sono state progressivamente smantellate o ricollocate in funzione subordinata, come articolazioni gerarchizzate in una nuova e inedita cartografia del potere globale. La base materiale di questo processo insiste sul concetto di circolazione produttiva, così come già in parte desumibile dagli schemi marxiani sulla riproduzione capitalistica nel II libro del Capitale, a cui si sono ispirate le stimolanti analisi di Rosa Luxemburg e dello stesso Lenin, seppure con angolazioni diverse. Nella circolazione produttiva riferita al capitale globalizzato, alla totalità strutturale ed articolata della formazione sociale sul piano del mercato mondiale, diventa fondamentale accorciare i tempi di circolazione e riproduzione capitalistica, di realizzazione del plusvalore e accumulazione. Ridurre i tempi di circolazione di merci, capitali, flussi finanziari tendenzialmente verso lo zero: questo l’imperativo del comando globale. 

«Annullare lo spazio attraverso il tempo», come diceva Marx, è la grande utopia del capitale collettivo, il cui imperium trascende i singoli capitali, individuali, nazionali etc. Questa figura del comando imperiale non tollera limiti, intoppi, strozzature, rallentamenti, mediazioni: è un potere sovrano decisionista, che si nutre di uno stato di eccezione permanente, che si trasforma per ciò stesso in norma, in normalizzazione dell’eccezionalità, trascinando con sé e destrutturando tutto il vecchio apparato del diritto borghese e i suoi fondamenti, generati in una fase in cui lo sviluppo capitalistico si muoveva nel quadro politico-giuridico dello Stato di diritto e della rappresentanza democratica. 

Il nuovo diritto imperiale, in continua gestazione e formazione, non tollera legislazioni fisse, rigide, norme fondamentali, diritti universali scolpiti per sempre nella storia, come dalla Rivoluzione Francese in poi. Piuttosto, il diritto, la produzione normativa, le leggi sono totalmente immanenti agli imprevedibili movimenti del mercato, alla sua estrema flessibilità. Il diritto si plasma e si riconfigura non più su principi universali fondanti, bensì sulla contingenza, sulle esigenze mutevoli, date di volta in volta dalla riproduzione del capitale complessivo e della sua circolazione. 

Un diritto non più uguale, ma differenziale, che decide sui vari gradi di inclusione o esclusione dalla cittadinanza, sulle discriminazioni, su premi e punizioni, sui delitti e sulle pene, in base a criteri di normale eccezionalità, in funzione di segmentazione, stratificazione, divisione per linee etniche e di classe del corpo sociale. È evidente la distruzione della società civile, ridotta ad una serie di atomi individuali, non più cittadini portatori di diritti inalienabili, bensì produttori-consumatori gettati nell’immenso oceano del mercato mondiale. Ed è chiara anche la strategia preventiva di questa grande trasformazione sul piano del diritto e del suo corpo giuridico: impedire qualsiasi forma di ricomposizione collettiva, di resistenze comunitarie, di fondazione di un altro diritto, il diritto del comune, un diritto rivoluzionario. 

Se la democrazia rappresentativa e altre mediazioni istituzionali permangono, se le vecchie costituzioni sono conservate, lo sono in quanto svuotate di ogni potere reale, come meri simulacri. L’autonomia del politico non ha più alcuna efficacia reale, proprio perché viene meno il paradigma strutturale si cui si era costituito: non ha più alcuna autonomia e rimane solo la forma del politico rappresentativo senza alcun contenuto, al di là delle buone o cattive intenzioni dei vari attori sul palcoscenico della rappresentazione. 

Dallo Stato di diritto al diritto del comune

In un quadro in cui emergono sempre di più le trasformazioni del lavoro post fordista, in cui si assiste alla ridefinizione di un nuovo paradigma del comando imperiale e del capitalismo globalizzato nella sussunzione reale, si afferma l’effettualità di quel «mercato mondiale» preconizzato da Marx, che modifica profondamente i vecchi statuti su sovranità, sistemi giuridici e norme che regolano i flussi del capitale globalizzato all’interno di nuove gerarchie del diritto differenziale. Quale spazio può essere occupato da una relativa autonomia del politico istituzionale rispetto al nuovo ordine imperiale ed ordoliberista? Quale quadro di riferimento nel declino e dissoluzione dello Stato-Nazione e della sua sovranità, determinata nello specifico rapporto con gli organismi intermedi della società civile, come partiti, sindacati e associazioni?

La dissoluzione dell’impianto sovranista dello stato nazionale e la sua rifunzionalizzazione in termini di obbedienza gerarchizzata rispetto all’ordine capitalista globale annullano ogni spazio per l’autonomia del politico. I continui richiami alla nostra costituzione sono lettera morta e strumenti di lotta politica del tutto inefficaci. I tentativi da sinistra di ricostruire la sovranità nazionale sono velleitari e rischiano di diventare persino reazionari, confondendosi con il populismo. Il richiamo allo Stato di diritto, quando esso si è già trasformato in «diritto dello Stato come pura norma di comando», fanno regredire la contraddizione rispetto alla necessità di fondare un nuovo diritto del comune contro l’organizzazione imperiale del Potere[1].

L’impero globale non è configurabile in qualche Stato o particolare area geopolitica, bensì in una composizione transnazionale di oligarchie dominanti e apparati egemonici per la governance mondiale.

Non si tratta dunque di una mera estensione dell’imperialismo con base negli Stati nazionali, che permangono come elementi determinanti, bensì di un vero e proprio mutamento di paradigma, dentro i quali forgiare nuovi strumenti per la critica e l’azione rivoluzionaria. 

Chi guarda indietro ripete il ciclo del «sempre uguale» e la vuota autoreferenzialità.


[1] Per approfondire la questione rimandiamo al testo di Paolo Cognini scritto su Globalproject.info, Crisi dello stato di diritto e nevrosi elettorali