Il contributo di Globalproject.info alle iniziative dell'ottobre

Un calendario di lotta per il comune nel Vendemmiaio dell'anno CCXXI

I movimenti sociali di fronte a crisi e declino, in Italia e in Europa, tra Angela e Dudù.

1 / 10 / 2013

E’ difficile sottrarsi alla distinta percezione di una distanza abissale, che separa lo strutturarsi duro del comando sul piano della governance europea dal caos istituzionale che pare regnare sovrano nei paesi del Sud, e nel nostro in particolare.

Sarebbe sufficiente scorrere le cronache politiche degli ultimi giorni, a partire dalle spedite trattative che porteranno alla nascita della Grosse Koalition in Germania (e la conferma della stessa alleanza nel voto austriaco, nonostante la preoccupante crescita della estrema destra erede di Haider) quale formula che si candida ragionevolmente a precostituire l’asse di governo nei centri dell’integrazione continentale nei prossimi anni.

E confrontare questa vicenda con il naufragio delle “larghe intese” italiane, con il permanente condizionamento degli assetti istituzionali da parte dell’anomalia berlusconiana. Insomma, il paragone tra la lezione prussiana di Angela Merkel e il gossip triviale sul cagnolino Dudù brucia ed è quanto ci offre il panorama politico–istituzionale del nostro paese. Con buona pace della grande stampa, cioè dei salotti buoni di ciò che resta del capitalismo nazionale, che dalle prime pagine del Corriere della Sera così come del Sole 24ore versa fiumi di lacrime coccodrillesche sull’ “inaffidabilità” del ceto politico, sull’assenza in Italia di una “sana destra moderata” di stampo europeo, sull’ “irresponsabilità” delle scelte compiute dai diversi attori che recitano nel teatrino.

La vicenda italiana fa del resto il paio con l’ondata di scandali per corruzione che, negli ultimi mesi, ha investito il Partido Popular di Rajoy al governo in Spagna e deve essere letta anche in relazione con il significato attribuibile all’operazione giudiziaria che ha decapitato i vertici di Alba Dorata in Grecia: non c’è spazio, pare, nella penisola ellenica per pericolose derive reazionarie, perché un eccessivo peso politico del partito neo-nazista avrebbe potuto turbare proprio le politiche che, anche per Atene, sono state definite altrove.

Sembra risultare infatti secondario, dal punto di vista della complessiva gestione capitalistica della crisi in Europa, al di là delle lamentele confindustriali, se in Italia vi sia o meno uno stabile governo dotato di una robusta maggioranza parlamentare.

Tanto c’è il “pilota automatico” e la micidiale concatenazione di Fiscal Compact, Six Pack e Two Pack è in grado di condizionare a sufficienza i fondamentali della politica economica italiana.

Tanto le decisioni che contano sono state e vengono prese altrove, e la rotta dell’Europa anche nelle sue differenti articolazioni nazionali è assicurata dalla permanente triangolazione tra i vertici della Troika: Banca Centrale di Francoforte, Commissione europea e Consiglio, in una dialettica intergovernativa saldamente condizionata dall’influenza tedesca.

Ecco che, allora, il caos politico-istituzionale sulla scena italiana – ma il discorso vale per tutti i paesi che si affacciano sulla sponda settentrionale del Mediterraneo - non può che rafforzare il “commissariamento” delle politiche nazionali da parte della governance oligarchica europea. Salvo privare di interlocutori-controparti qualsiasi conflitto, anche di carattere eminentemente vertenziale, che si muova in via esclusiva sul piano nazionale.

E’ uno di quei casi in cui la “grande confusione”, in cui versa la Penisola, si rivela tutt’altro che “eccellente” anche dal punto di vista dei movimenti. Abbiamo già visto come, dall’estate 2011 in poi, la campagna elettorale permanente, che ha accompagnato l’instaurazione dello stringente controllo esterno da parte della Troika, all’insegna di austerity e privatizzazioni, sulla politica economica italiana, non abbia affatto comportato l’apertura di una stagione di lotte sociali, ampie e diffuse all’insegna della trasformazione sociale. Anzi, tra governi tecnici, presidenzialismo de facto, elezioni e larghe intese, abbiamo assistito a una sorta di “congelamento” di ogni possibile generalizzazione del conflitto, che rischia di divenire vera e propria “ibernazione”.

Una condizione che minaccia infatti di perpetuarsi, se guardassimo solo al “calendario” delle mobilitazioni nazionali annunciate per le prime settimane dell’autunno.

I rivoluzionari di ogni tempo hanno avuto in odio i calendari.

Aborrivano i calendari ufficiali perché è questa la scansione del tempo dominante. E chi controlla la scansione del tempo, dando un nome al susseguirsi di giorni, mesi e anni, ha la presunzione di dominare la vita, le vite di chi quel calendario deve seguire.

I rivoluzionari francesi, a partire dall’ottobre (Vendemmiaio) del 1793, addirittura inventarono e imposero un loro calendario, che ebbe come primo effetto quello di aumentare i giorni di riposo dal lavoro.

I rivoluzionari della Comune, nel 1871, andarono oltre. Non solo ripristinarono il calendario rivoluzionario, che era stato soppresso da Napoleone dopo la restaurazione termidoriana, ma i comunardi sparavano sistematicamente sugli orologi, divenuti nel frattempo strumento pratico della scansione borghese della giornata lavorativa e pertanto simbolo dello sfruttamento, nell’estrazione del plusvalore assoluto.

Ci collochiamo perciò, con rispettosa modestia, in una lunga e nobile tradizione, se affermiamo di soffrire parecchio all’idea che modi e tempi dell’azione sociale e politica dei movimenti, si esprima essa sul terreno della “produzione di opinione pubblica” o della “sollevazione generale”, possano essere definiti in base ad un calendario predefinito a tavolino, “agenda alla mano” come si è soliti dire.

Lo stesso termine di “agenda politica” ci fa poi orrore per ciò che è venuto a significare nel linguaggio corrente. Quando, ad esempio, un tema “entra nell’agenda politica” di governo, stiamo pur certi che ci sono fregature in arrivo.

Per questo in queste settimane non ci ha appassionato la discussione, che si rappresentava quasi come una necessità di schieramento tra l’una e l'altra delle scadenze nazionali: il 12 e il 19 ottobre.

Sul 12 ottobre non pensiamo di essere i soli a disagio nel sentire tirare la vecchia Costituzione per la giacchetta pur di dare respiro ad un appuntamento, che la crisi di governo rischia di far diventare un rassemblement di posizionamento politico-elettorale.

Sul 19 ottobre dall'iniziale convocazione, chiamata per invocare la "sollevazione" contro un Palazzo che peraltro, vista la crisi istituzionale, si rischia di trovare vuoto, si è passati, come negli interventi dell'assemblea nazionale svoltasi a Roma alla Sapienza, ad una discussione che può dare a questo appuntamento la possibilità di essere vissuto come un'occasione da costruire e non come un'autorappresentazione già vista.

Ma al di là di questi spunti ci pare che quello che è successo, con la convocazione di vari appuntamenti, sia anche un segno della crisi che si riverbera sui movimenti e sulla cosiddetta società civile. Già, la crisi.

E’ da qui che dobbiamo partire.

Perché se certo essa è crisi globale del capitalismo, per come lo abbiamo conosciuto da quattro decenni a questa parte, è altrettanto evidente come produca effetti strutturali estremamente differenziati. Per capirci: un conto è il “rallentamento” della crescita nelle economie emergenti, che il tasso di crescita annuo del PIL di Cina, India e Brasile passi dalle due cifre al sette/otto per cento, un altro conto è la “spirale” tra politiche di austerity, recessione produttiva, declino economico e sociale in cui, in parte gli Stati Uniti, ma soprattutto le economie dell’Eurozona si sono avvitate da oltre tre anni, senza che s’intraveda una possibile via d’uscita.

E se il crepuscolo dell’impero americano comporta essenzialmente l’esaurimento di un ruolo dominante dal punto di vista politico e militare, come mostrato dalla recentissima vicenda siriana, e la forzata adesione di Washington a una prospettiva de facto “multipolare”, è nella vecchia Europa e, in particolare nei paesi del Sud che si affacciano sul Mediterraneo, che la crisi pare segnare una stagione di decadenza strutturale, tra indebolimento del tessuto produttivo e impoverimento di massa. Ciò non significa che, anche qui, i dispositivi della rendita finanziaria, come esercizio di comando e appropriazione parassitaria della cooperazione sociale non continuino a funzionare. Anzi, vi è una diretta concatenazione tra declino economico, “vitalità zombie” del capitalismo finanziario e ineguale polarizzazione nella ridistribuzione sociale della ricchezza.

E, senza voler precostruire alcun lineare meccanicismo, viene il sospetto vi sia una qualche interrelazione tra questo contesto di strutturale declino, la patente inadeguatezza del ceto politico (tra arraffarraffa e tattiche di sopravvivenza) del tutto evidente nella crisi di governo che si è aperta e, senza chiamarci fuori, i limiti espressi dalla soggettività dei cosiddetti movimenti.

Si assiste piuttosto qui a una vera e propria regressione, non solo rispetto ai più recenti tentativi di rispondere alla gestione capitalistica della crisi con la contraddittoria ma fondamentale ricerca di terreni comuni, di coalizioni di scopo, di ricerca e pratica del comune, di mobilitazione da parte di tante/i e differenti, ma anche rispetto alla forza di discorso e di pratica espressa sul terreno dell’ “altro mondo possibile” dall’ultimo grande ciclo di movimento globale, quello cosiddetto “no global” appunto.

Proprio nel momento in cui la portata dell’attacco della rendita capitalistica pretenderebbe un “di più” di tutto sul piano dell’azione volta a sovvertire il presente, non possiamo solo accontentarci della proliferazione di una molteplicità di conflitti sociali e territoriali localizzati, e del riprodursi di pratiche di mutualismo e cooperazione che prefigurano e spesso attuano relazioni sociali e modelli produttivi alternativi. Si tratta di cose importanti, fondamentali, che nelle ultime settimane hanno continuato a mostrare una certa vitalità : dalla strenua resistenza No Tav in Val di Susa, a  Vicenza contro le servitù militari, da Venezia contro le grandi navi alla Campania contro il biocidio, da Roma contro le discariche fino alla Sicilia contro il Muos, per fermarci a qualche esempio, e per non parlare delle nuove occupazioni di spazi sociali e case, un po’ dovunque. Ma esse non possono costituire, di per sé sole, quella prospettiva alternativa di sistema, che qui e ora dovrebbe stare in campo nella e contro la crisi. E, allo stesso modo, una pluralità di lotte, per quanto significative e territorialmente radicate, non può produrre da sola quel doppio effetto destituente e costituente decisivo per una pratica del comune all’altezza del cambiamento radicale dell’esistente.

Perciò, al di là delle concrete scelte che, legittimamente, centri sociali e occupanti di case, associazioni e comitati che si battono per i beni comuni, realtà studentesche e organizzazioni di lavoratori decideranno di compiere rispetto ai singoli appuntamenti delle prossime settimane, noi lavoreremo alla riuscita delle giornate sia del 12 che del 19 ottobre. Ambedue le scadenze, anche se diverse tra loro, rappresentano un'occasione a cui vogliamo contribuire, seppur in modo differenziato rispetto alle valenze che stanno assumendo. Come Globalproject.info intendiamo portare il nostro contributo – anche critico – alla ricerca di un nuovo orizzonte comune e condiviso, orientato alla costruzione di coalizioni sociali ampie ed efficaci, capaci di contenere esperienze diverse ma in grado di proiettare i propri percorsi di lotta, le proprie suggestioni politiche su un piano che sia immediatamente metropolitano, europeo-e-mediterraneo.

E "... que les horloges s'arrêtent à cet heure un nouveau temps ..."

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