Seconda parte dell'inchiesta "Mare nostro"

Un Mare di guai

di Fabrizio Andreozzi*

4 / 8 / 2009

Tutto sembra, erroneamente, avere inizio lo scorso 15 giugno.

I lavoratori della Hidrogest s.p.a. (concessionaria della Regione Campania per le gestione di 5 impianti di depurazione delle acque reflue) esasperati dai continui ritardi nel pagamento dello stipendio, incrociano le braccia per due giorni. 540 mila metri cubi di liquami finiscono nel mare flegreo. Ed è emergenza ambientale. Gravissima. Con tanto di clamore mediatico.

Iniziano a circolare i dati ARPAC che parlano di una presenza di 200 mila coliformi fecali ogni 100 ml di acqua a fronte di un limite massimo consentito di 2000 100 ml, che alimentano le psicosi collettive legate alle infezioni, le “bolle” cutanee e i vermi (veri o presunti).

Con essi spuntano l’ipotesi commissariamento di 40 km di costa flegrea caldeggiata dai vertici regionali del PDL e le rassicurazioni sullo “stato di salute” delle coste campane da parte dell’assessore regionale all’ambiente, Walter Ganapini, che in aperta contraddizione con i dati ARPAC, sostituisce il direttore Capobianco, con il nuovo, e magari più remissivo, direttore Volpicelli.

Il mare di Licola trasformato in una fogna a cielo aperto. Un enorme macchia marrone, alimentata ora dopo ora dai liquami scaricati direttamente in acqua. Strade viscide per la melma, sovrastate da un tanfo nauseabondo. I liquami sgorgati copiosamente dal sottosuolo, attraverso i tombini.

E’ questa la verità. Tangibile.
Un pezzo di litorale tra i più suggestivi d' Europa, distrutto da un paradosso: un depuratore, quello di Cuma, che invece di ripulire, inquina.

Qui sbarcò Enea, come insegna Omero. Sulla sabbia, migliaia di cannucce di succhi di frutta, arrivate chissà come tutte lì, con rifiuti di ogni specie. Il canale di scolo delle fogne discendenti dai Camaldoli corre per alcune decine di metri, fianco a fianco l' alveo borbonico, disseccato, in pietra lavica, e quello di cemento, un fiume in piena. Nero.

Una porta per la storia, dimenticata, sfruttata, abbandonata da 25 anni di mala-politica, spregio del territorio, spreco di denaro pubblico, banditismo affaristico di quanti nel corso degli anni si sono avvicendati nella gestione del business della depurazione delle acque reflue in Campania, al pari dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani.

Succede così che, le notizie di stampa e gli allarmi fanno scattare gli accertamenti da parte del pool Ecologia della Procura di Napoli coordinato dal sostituto procuratore Aldo De Chiara, coadiuvato, tra gli altri, dal pm Antonio D’Alessio, titolare del fascicolo. L’ufficio diretto dal procuratore Giandomenico Lepore è  - dicono - determinato a fare piena luce sul caso esploso. L’inchiesta riguarderà tutti gli aspetti della questione, dal funzionamento dell’impianto ai rapporti tra la società Hidrogest, che gestisce il depuratore, e la Regione Campania.

Dopo le indagini sugli impianti di cdr, ritenuti dai pm incapaci di assicurare le ecoballe richieste dal contratto, si passa a scavare su un nuovo versante del rapporto tra pubblica amministrazione e soggetto privato. Cosa prevedeva il contratto in caso di un servizio non all’altezza delle aspettative? Da Palazzo Santa Lucia che strategia doveva essere adottata in caso di cattivo funzionamento della struttura flegrea? Questi gli interrogativi che ci si pone in Procura, e sulla carta stampata.

Ma perche solo ora? C’è sempre una risposta.

Una ragione “politica”. Un interesse economico. Ci arriveremo.

La storia del depuratore sembra essere la cronaca di un disastro annunciato, in un fascicolo che ipotizza allo stato reati ambientali (disastro), e di pubblica amministrazione (truffa e abuso d’ufficio). Perché, tanto per ricordarne una, la perizia commissionata dal governo e consegnata ai tecnici della Regione Campania nel novembre 2007 sembra essere rimasta lettera morta?

Era, appunto, il novembre 2007. Mesi prima che la gestione del depuratore transitasse dal controllo del commissariato di governo ai tecnici di Palazzo Santa Lucia (tra l’altro, entrambi presieduti da Antonio Bassolino), 18 mesi prima della grande depressione dei lidi balneari targata estate 2009, molto prima dello sciopero di centinaia di dipendenti del depuratore di Cuma in attesa dello stipendio.

Le vicende ultra-decennali del depuratore di Cuma sembrano racchiudere in sé quanto di pessimo c’è in Campania. E’ tutto compreso in 30 ettari del litorale flegreo con una bellissima pineta e ricca di vegetazione mediterranea: c’è l’incapacità e la disonestà di una intera classe politica, c’è lo spreco di denaro pubblico, c’è la violazione delle leggi sulla salvaguardia dell’ambiente, c’è l’infiltrazione della criminalità organizzata negli appalti pubblici, c’è quel lassismo che permette che un’opera non sia completata dopo più di venticinque anni dalla sua costruzione, c’è il permissivismo di tutti coloro che dovevano controllare e che non lo hanno fatto, c’è l’assenza dello Stato e c’è il degrado, ma soprattutto c’è un senso di abbandono percepito da tutti quei cittadini che vivono in questi territori.

È opportuno, per meglio chiarire le modalità con cui si arriva allo stato attuale del litorale flegreo, procedere con ordine.

Tutto ha inizio alla fine degli anni ’70 quando la Italimpianti s.p.a., la stessa ditta che ha costruito parte degli impianti ormai dismessi di Bagnoli, iniziò la costruzione di un impianto per la depurazione delle acque reflue dei comuni dell’area flegrea. I lavori furono completati negli anni ’80 e quattro anni dopo (1986), l’impianto fu chiuso causa la quantità spropositata di idrogeno solforato sprigionata nell’aria che risultava di gran lunga superiore ai livelli di tollerabilità e l’eccessiva tossicità, per presenza di cromo, dei fanghi essiccati. Un compromesso politico condusse alla riapertura a “ranghi ridotti” dell’impianto, subordinata ai lavori di adeguamento affidati alla Cassa del Mezzogiorno, che nel frattempo fu soppressa. In sostanza non si poteva chiudere un’opera costata 200 miliardi dell’epoca, rovinando, così facendo, l’immagine di una classe politica che della risoluzione del problema degli scarichi fognari ne faceva un vanto. Inutile sottolineare che i lavori della Cassa del Mezzogiorno non sono mai partiti, dunque.

A finanziare i lavori di adeguamento però ci ha pensato la Regione Campania che nel 2000 ha stanziato 1350 miliardi (!) di vecchie lire, in project financing, per la “realizzazione e gestione di sistemi di depurazione”, con un sostanzioso capitolo di spesa per l’impianto di Cuma.

I lavori anche questa volta, però, non si sa per quale motivo non siano partiti.

Dal rapporto “ENEA”, infatti,  l’impianto non risulta per nulla a norma con le normative vigenti, in quanto “non tutti i collettori fognari previsti dal progetto sono stati realizzati”, oltre a presentare “scarichi abusivi di natura industriale”, “pretrattamenti di grigliatura e dissabbiatura fuori uso”, “unità di desolforazione fuori esercizio” a conferma di uno stato generale di “obsolescenza delle opere e delle apparecchiature, cattivo stato di conservazione delle opere in esercizio” a cui aggiungere una copiosa “carenza di manutenzione straordinaria delle opere elettromeccaniche”

Nel 2006 si è poi conclusa dopo 3 anni (causa il ricorso al TAR degli altri concorrenti) la gara indetta dalla Regione per affidare la gestione dell’impianto. Ad aggiudicarsi l’appalto, per 15 anni,  è stata appunto la Hidrogest s.p.a. che è subentrata alla ditta Pianese i cui legali rappresentanti, con singolare coincidenza di tempi con il blocco dell’impianto dello scorso giugno, sono stati condannati per il dolo nella gestione dell’impianto e il procurato inquinamento ad un anno e sei mesi di reclusione con pena sospesa e al risarcimento dei danni da stabilire in sede civile.

Ma i guai non sono finiti. Il sito è stato, nel corso degli ultimi 31 mesi di gestione Hidrogest, perquisito più volte dalla polizia ecologica, per cui, ad oggi, “l’impianto di Cuma non ha l’autorizzazione per lo scarico in mare e a tutt’oggi non sono stati avviati i lavori per l’adeguamento dell’impianto” in quanto il depuratore non rispetta i limiti massimi di alcune sostanze chimiche contenute nei liquami che finiscono in mare dopo il trattamento.

Insomma siamo tornati al punto di partenza. È dal 1986 che l’impianto necessita di lavori di adeguamento che non sono ancora stati effettuati.

È notizia degli ultimi giorni, la stipula di un accordo tra la Regione Campania e Hidrogest s.p.a. per l’ammodernamento e la rifunzionalizzazione dei depuratori gestiti dal concessionario.

L’atto stipulato rende possibile il finanziamento da parte di Banca Intesa di 128 milioni di euro (!). La Regione, dal canto suo, metterà a disposizione di Hidrogest s.p.a. il contributo pubblico di 20 milioni (!) al fine di accelerare gli interventi urgenti da realizzare.

Ma chi è la Hidrogest s.p.a. capace di estorcere continuamente appalti, denaro pubblico e impunità, nonostante anni di incapacità e lassismo nella gestione degli impianti di depurazione con conseguenze nefaste per le casse pubbliche, per lo stato delle coste campane e, quindi, per la salute dei cittadini campani?

O forse la “strategia politica” di privatizzare il servizio di depurazione delle acque “di fogna” si basa sulla volontà di deresponsabilizzare le istituzioni e gli uffici alle loro dipendenze caricando il peso delle responsabilità stesse su altri, così come è avvenuto anni fa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani? Perché è soprattutto questo l’argomento in discussione: un vergognoso scaricabarile che va a danno dei cittadini che pagano le tasse continuando a veder violentato il proprio territorio, a veder a rischio la propria salute. 

Nel caso specifico, i cittadini pagano, per la depurazione delle acque, una tassa ai Comuni che ne girano i proventi alla Regione Campania, affinché questa depuri le acque. La regione Campania però ha affidato la gestione di cinque depuratori, tra i quali quello di Cuma, ad una società privata, la Hydrogest S.p.A, appunto. Quest’ultima in ben tre anni di gestione non ha iniziato i lavori, lamentando più volte di non aver ricevuto i canoni dalla Regione; la quale, invece, ha replicato, affermando di aver sempre versato con regolarità i canoni alla Hydrogest, e rimettendo ai comuni la colpa di non versare nei tempi prestabiliti i proventi della tassa sulla depurazione che pagano i cittadini.

La Hidrogest s.p.a. è una partecipata presieduta da Enrico Papi, top manager arrestato da Di Pietro nel 1992 con l’accusa di corruzione e finanziamento illecito ai partiti, con sede a Bergamo. Il 90% delle quote è in possesso della Termomeccanica  s.p.a, con sede a La Spezia, colosso della produzione di energia legata allo smaltimento dei rifiuti e della depurazione, potabilizzazione e dissalazione della acque in Italia e all’estero con fatturati di decine di milioni di euro – le cui quote sono detenute al 40% da Intesa SanPaolo. La stessa Intesa – San Paolo che finanzia, grazie all’accordo Regione Campania – Hidrogest s.p.a.  - in pratica se stessa - i 128 milioni in project financing per l’ammodernamento e la riqualificazione dei depuratori campani.

Il restante 10% delle quote Hidrogest è detenuto dalla società “Giustino Costruzioni” con sedi a Napoli e Monaco di Baviera che può vantare concessioni milionarie da parte della Regione Campania nell’ambito del recupero edilizio e dello smaltimento delle acque reflue.

Partner, tra gli altri, con il 33,33% delle quote, di Impregilo s.p.a. per il disinquinamento del golfo di Napoli. Niente male.

E se si trattasse, invece, dell’ennesimo “shock”?

Se le pessime condizioni igienico-sanitarie delle coste campane siano frutto di un disegno politico-affaristico-criminale più che di anni di cattiva gestione, lassismo e incapacità?

Un’altra emergenza “provocata”. Come afferma Ascanio Celestini in “Una montagna di balle”. Un’emergenza “come quella del colera (1973), quella del terremoto (1980). Da queste parti l’emergenza sembra diventata una forma di governo. La monarchia, la tirannia, la democrazia e… lo “stato d’eccezione”.

L’emergenza come “sospensione, giustificata con l’esigenza di tutelare i poteri pubblici di fronte a rischi e minacce eccezionali, di norme, garanzie e procedure che regolano l’ordinario funzionamento dello Stato”.

Aldilà dei risultati conseguiti c’è un problema di “sostenibilità politica” dei commissariamenti campani come “governo dell’emergenza”.

Le competenze e la legittimità delle amministrazioni ordinarie mutilate dalle gestioni commissariali con conseguente sospensione delle direttive comunitarie in materia ambientale, compresi i meccanismi di controllo, valutazione e partecipazione pubblica che esse prevedono, in quella che Donato Ceglie, pm della procura di S. Maria Capua Vetere, considera “una riforma istituzionale non dichiarata”.

Ma quali sarebbero, allora, le finalità, la “posta in gioco”, le parti coinvolte, gli interessi che muovono i fili della nuova “emergenza”? Il mare è inquinato. È indubbio. Ma perché, dopo anni di silenzio dei media, delle istituzioni, ci troviamo di fronte ad un’improvvisa escalation di allarmi?

Direttamente coinvolti, secondo l’assessore regionale Walter Ganapini, i servizi segreti e la Presidenza della Repubblica.

Non è possibile che i 5 impianti di depurazione delle acque funzionino tutti al di sotto del 20%. Nel migliore dei casi. Qualcuno deve averli manomessi o lasciati appositamente a marcire.

Un litorale, quello domitio-flegreo, che soffre di decenni di incuria, scarichi industriali abusivi, edilizia selvaggia, su cui, oggi, incombono una serie di progetti multimilionari. Centinaia di milioni di euro pubblici, in project financing, pronti per finire nelle tasche dei “soliti influenti noti”: dalla realizzazione di un porto turistico a “pineta mare” con 1200 posti barca oltre ad un’infinita serie di speculazioni immobiliari da parte delle lobby affaristico-criminali, Mercegaglia-Coppola-Casalesi, alla realizzazione del progetto “Waterfront” che interesserà l’area industriale ex-Sofer con un investimento pubblico di 600 milioni di euro. Per ora.

Il protocollo d’intesa tra la società “Waterfront flegreo”, della quale è socio di maggioranza, in compartecipazione con “Pirelli Re”, Milano Investimenti e “Finmeccanica Re”, l’ing. Livio Cosenza, titolare di un colosso immobiliare di livello internazionale ,e il Comune, ha il suo punto cruciale, appunto, nell’area ex-Sofer, uno dei simboli della vecchia industrializzazione, che verrà trasformata in un grande complesso con alberghi, ristoranti, centri commerciali su un’area di 50mila metri quadri.

Collegamenti viari tra il nuovo porto turistico e la tangenziale di Napoli, mille posti barca, il recupero urbanistico del “Rione Terra” di Pozzuoli, la “piazza a mare” nell’area dell’ex piazzale dei traghetti, l’accademia internazionale di Vela per un progetto complessivo che rivolterà come un calzino l’area flegrea aprendo prospettive turistiche, e speculative, di incalcolabile portata.

Ma chi è Livio Cosenza? Immobiliarista al centro di un business milionario?

È il padre dell’on. Giulia Cosenza, eletta nelle fila del PDL e membro della Commissione Ambiente e Territorio e ferma sostenitrice della richiesta di maggiori fondi pubblici per la bonifica dell’area flegrea, avvelenata per anni dall’attività del depuratore di Cuma e da altre pratiche criminali eseguite tanto dai clan quanto da imprese legate all’esercito italiano, come l’Alenia Finmeccanica.

Quella stessa Finmeccanica, che, attraverso una sua controllata (Finmeccanica Re), a spese delle casse pubbliche, rivendica la bonifica dei suoli e delle acque, propedeuticamente al “saccheggio” targato Waterfront.

In conclusione. L’on Giulia Cosenza ha dichiarato che presenterà in Parlamento una proposta di militarizzazione dei depuratori campani, dichiarati fuorilegge dall’ARPAC.

Schiereranno i militari nei depuratori, così come hanno fatto nelle discariche e negli inceneritori.

Una regione già presidiata da basi militari NATO, dal Comando Navale USA in Europa, da un’infinità di caserme dell’esercito, in cui la militarizzazione rappresenta il principale mezzo di risoluzione di problemi di ordinaria amministrazione.

* Laboratorio Occupato Insurgencia