Un pasdaran sfigato

6 / 2 / 2012

Qualcuno si era creduto che Monti il “modernizzatore” rappresentasse una svolta, almeno sul piano dello stile? In realtà è un povero sfigato, disavvezzo alla comunicazione mediatica, che fa battute peggio di Brunetta, Gelmini e Sacconi, perfino con un lieve cigolio isterico: davvero un poco carismatico emissario del finanzcapitalismo. Però lo rappresenta, anzi è verosimile (lo sostiene il «Financial Times») che sia il commissario europeo di Obama in funzione anti-Merkel. Se risulta imbranato è per due ordini di motivi. Il primo, s’intende, è la micidiale intensità della crisi che vanifica i piani meglio congegnati e induce i partiti, per quel che ancora contano, a lesinargli la fiducia, visto che non si sa come le cose andranno a finire. Secondo, che avrebbe dovuto scandire il ritorno alla normalità dopo la sbornia populista berlusconiana, ma si inserisce in una situazione ancora zeppa di aspettative decisioniste e di demagogica personalizzazione, in cui continuano a incappare comicamente i suoi ministri, oscillando fra lacrime e ukàz, profferte negoziali e me fas tut mi, decretazione d’urgenza su cose non urgenti e precipitose marce indietro nel giro di una settimana. Tutto questo, però, mette in luce la rovina dell’influenza dei tre poli e delle illusioni redentrici alimentate dal coro irresponsabile dalla stampa di regime. La fiducia in Monti è destinata a un rapido declino e le scoregge sulla monotonia del posto fisso e sui laureati tardivi sono segni di nervosismo e arrogante sgomento.

Il vero problema è: perché all’improvviso si è passati dalle lusinghe concertative e dal rinvio dei provvedimenti scabrosi alle provocazioni (tecnicamente non necessarie) sull’art. 18 e sul valore legale del titolo di studio, mentre comincia il sordo logorio parlamentare sulle liberalizzazioni e il blitz sulla giustizia incrina l’inciucio fuori e dentro i partiti? Cosa sta mettendo fretta a Monti, Passera e Fornero? Perché sembrano disposti ad accontentarsi dello scontato appoggio del Pdl sulle misure antisindacali, ultimo anello della lettere Bce? La risposta più probabile sta nell’improvviso aggravamento della crisi –di cui sono sintomi il rinvio di una congrua dotazione del fondo salva-Stati, la difficile conclusione della trattativa con la Grecia (mancano “appena” 15 miliardi di €) e l’inabissarsi di Portogallo e Irlanda– e dunque il rischio sempre più concreto di una rottura dell’eurozona, che potrebbe manifestarsi non tanto con l’espulsione dall’euro dei paesi deboli, ma addirittura con l’uscita della Germania dall’euro. Soluzione cara alla Bundesbank e assai più agevole, almeno come minaccia. Soluzione, aggiungiamo, sgraditissima a Obama, perché troppo concorrenziale rispetto al dollaro in entrambe le versioni monetarie derivanti dalla rottura dell’euro. E dunque il commissario Monti, con i suoi esigui poteri effettuali, deve ammansire la Cancelliera facendo la faccia feroce sulla riforma del mercato del lavoro, come ha già fatto con gli indifesi pensionati. Contro la galoppante recessione, invece, non può nulla e sarà quella a far saltare le speranze di riassorbire in limiti decenti il deficit entro il 2013.

Decisionismo d’accatto e pochi spiccioli, rispetto alla mole delle questioni da risolvere, ma eccellente cartina di tornasole per misurare le resistenze a una dittatura tecnocratica. Non a caso il governo è saltato con la stessa foga in groppa alla persecuzione caselliana contro i dimostranti No-Tav, facendola propria in concomitanza con le agitazioni del settore logistico. Infatti, una volta domata (sperano) la resistenza residuale delle grandi fabbriche, il punto debole (capace di arrestare la produzione) sta proprio nel sistema della circolazione nazionale e metropolitana delle merci e degli sfruttati e dunque la repressione vi assume un valore strategico esemplare. Dividere, bastonare, arrestare è la Santissima Trinità della governance tecnocratica quando il gioco si fa duro. In quel caso, si sa, entrano in campo i veri duri. Ma gli antagonisti dei pasdaran della deregolazione devono essere astuti, oltre che duri. Il loro compito consiste non soltanto nel bloccare le manovre divisorie, ma nel ricomporre il dissesto sociale che il neoliberismo ha già prodotto e sul quale conta per ridurre i costi della crisi per i vari settori in reciproco conflitto del capitale finanziario e delle sue articolazioni nazionali. Lo scontro sul precariato è un terreno decisivo per evitare che si risolva in una guerra fra poveri e in una riorganizzazione più efficiente (per il capitale) del caos contrattuale. La retorica della flexsecurity senza finanziare gli ammortizzatori sociali e della crescita per privatizzazioni senza investimenti dimostra la miseria del progetto finanzcapitalistico italiano, che però è urgente smascherare e contrastare con ogni mezzo. Sgonfiando l’euforia politichese e mediatica post-berlusconiana, ritessendo pazientemente la trama stracciata della solidarietà e dei beni comuni, superando la giungla contrattuale e assistenziale e una spaccatura fra garantiti e precari di cui anche i sindacati portano una parte di responsabilità.

L’impressione è che siamo arrivati al punto di svolta e che proprio su soluzioni a lungo rivendicate dai movimenti precari, quali il reddito di cittadinanza, si giochi la partita decisiva. La soluzione centrista non sembra più l’esito naturale del governo tecnico e si delinea una tendenza ad anticipare, come che sia, una stretta imposta dall’esterno, a preparare un’ondata di licenziamenti e tagli salariali in salsa greca, a costo di perdere un pezzo di maggioranza spaccando il Pd.