Una marcia per la giustizia sociale e climatica: campi di battaglia per nuove convergenze

Il documento verso la Climate March di sabato 10 settembre al Lido di Venezia

3 / 9 / 2022

Sabato 10 settembre il Lido di Venezia sarà attraversato da una grande Climate March. Una marcia che chieda giustizia climatica senza se e senza ma. L’abbattimento delle emissioni ora, non tra vent’anni. Il testo che segue è un tentativo di sintetizzare qualcosa che è difficilmente sintetizzabile, di tracciare le linee di intersezione che il capitalismo ha scavato opprimendo corpi e territori. Lungo queste linee vogliamo costruire argini comuni al disastro che incombe, per affrontarlo unitə e complessivamente.

Zone di sacrificio

Abbiamo già pericolosamente riscaldato il nostro pianeta e i nostri governi si rifiutano di adottare le misure necessarie per fermare questa tendenza. Un tempo, in moltə potevano usare l’ignoranza a propria discolpa, ma da almeno trent’anni (da quando è nato l’IPCC e da quando sono iniziate le trattative sul clima) il rifiuto di ridurre le emissioni è accompagnato dalla piena consapevolezza dei suoi pericoli.

I combustibili fossili non sono l’unica causa del riscaldamento globale, ma sono la causa maggiore. Il problema con i combustibili fossili è che sono per loro stessa natura così inquinanti e tossici da richiedere il sacrificio di luoghi e persone. Persone i cui corpi e polmoni possono essere immolati nelle miniere o le cui terre e acque possono essere spazzate via dalle cave a cielo aperto o dalle perdite di petrolio.

Già negli anni ‘70, i consulenti scientifici statunitensi definivano alcune zone del paese “zone di sacrificio nazionale”, come i monti Appalachi, fatti saltare in aria perché estrarre il carbone costava meno che scavare pozzi. Le aree intorno alle centrali elettriche subirono lo stesso trattamento. Interi quartieri, normalmente abitati da comunità afroamericane e ispaniche, furono costretti a portare il peso della nostra dipendenza dai combustibili fossili, un peso che si misura in tumori e malattie respiratorie. Per combattere questo “razzismo ambientale” è nato il movimento per la giustizia climatica.

Le zone di sacrificio sono sparse in tutto il pianeta. C’è il Delta del Niger, avvelenato da Exxon ed ENI, dove è stato portato avanti un vero e proprio “genocidio ecologico”, come ebbe a definirlo lo scrittore ed attivista Ken Sarò-Wiwa prima di essere assassinato dal suo governo. C’è l’Alberta, in Canada, dove l’estrazione delle sabbie bituminose ha distrutto le terre e gli accordi con le Prime Nazioni. Ma i confini delle zone di sacrificio superano il concetto di spazio fisico e si applicano anche a interi gruppi sociali, ai corpi, alle soggettività. Lo sfruttamento dei corpi femminili e razzializzati è uno dei cardini della divisione del lavoro nelle società pre-capitaliste ed è una delle componenti fondative dell’accumulazione originaria. La sistematica oppressione delle donne, rappresentata principalmente dallo sfruttamento del lavoro riproduttivo, e delle comunità razzializzate e schiavizzate è la riproduzione plastica del trasferimento del concetto di zona di sacrificio dal paesaggio al corpo.

Campi di battaglia

Natura e corpo diventano per il capitalismo campi di battaglia, luoghi su cui si gioca la più violenta delle partite. I corpi femminili e non conformi sono stati sistematicamente esclusi dagli equilibri di potere in tutte le civiltà occidentali. Oppressi e sfruttati, a questi corpi è stato imposto di provvedere alla riproduzione della specie umana, alla produzione di forza lavoro, da una posizione di subalternità. Lo sfruttamento del lavoro di cura ha permesso – e continua a permettere – lo sviluppo di società patriarcali, capitaliste e neoliberiste. Di fronte a questa consapevolezza, la saldatura tra movimenti climatici, movimenti decoloniali, movimenti transfemministi è spontanea, oltreché necessaria, per affrontare con adeguata radicalità la società capitalista. Nei contesti in cui l’estrattivismo si manifesta nel suo carattere più coloniale – in Sud America, in Africa, nel sud dell’Asia –, non è un caso che la risposta sia molto spesso guidata da donne o soggettività non binarie, i cui corpi vengono considerati zone di sacrificio dal capitale e campi di battaglia dal patriarcato. Sono zone in cui le violenze contro le donne sono più frequenti e più efferate, in cui il loro attivismo viene punito con la morte e lo strazio dei corpi. A queste esperienze tuttavia, in occidente, dobbiamo continuare a guardare: alle comunità che hanno teorizzato, organizzato e costruito un sistema basato su una diversa relazione tra soggettività e ambiente, in cui il femminismo radicale è prassi politica indissolubile e inscindibile da qualsiasi altro piano di azione o narrazione. In Sud America, Ni Una Menos ha travolto completamente la società, imponendosi nel discorso pubblico su ogni livello, costringendo qualsiasi soggetto politico a fare i conti con l’esigenza di un ripensamento in chiave femminista di qualsiasi analisi. Nello stesso continente, i popoli originari tramandano una tradizione di saperi femminili che oppongono all’estrattivismo una prassi di equilibrio ecosistemico e che si configurano come forme di sapere libere dai vincoli e dalle storture del patriarcato. Un esempio non dissimile dalla jineology, la scienza delle donne curda, che all’interno di un’esperienza rivoluzionaria come quella della Siria del Nord-Est fornisce una chiara indicazione sui modelli di società alternativi cui tendere.

Lo sfruttamento del lavoro riproduttivo si è costituito storicamente come uno dei pilastri per lo sviluppo del capitalismo, per il processo di avvio dell’accumulazione primaria. Insieme a questo, lo sfruttamento del lavoro produttivo non salariato ha concesso di tessere quella menzogna che è il paradigma di crescita infinita. Di nuovo non è un caso che questa forma di oppressione sia avvenuta su corpi precisi, chiaramente identificabili, attraverso un secolare (quando non millenario) processo di produzione sociale di othering. Corpi non bianchi, corpi indegni, corpi bestiali da sfruttare nelle piantagioni, nelle miniere, nei cantieri. Corpi mercificati, violati, disumanizzati.

Le condizioni materiali di queste soggettività si sono però trasformate spesso nella storia in esperienze di ribellione, in organizzazione, in rivendicazione. Si tratta di storie talvolta represse – e quindi cancellate dai libri perché ininfluenti –, talvolta vincenti – e quindi cancellate dai libri perché potenzialmente pericolose. Ciò nondimeno, sono storie che esistono, soprattutto nel sud globale, e sono storie a cui guardare liberandoci dai costrutti coloniali che ancora affliggono il nostro sguardo. Sullo scacchiere mondiale, il capitalismo gioca le sue pedine nelle caselle nere del Nord Globale, ma perde terreno in Sud America, in Africa, in Asia. Gli effetti dell’estrattivismo in questi territori hanno segnato ben più duramente la vita delle comunità autoctone, e la reazione è più radicale e reale qui che altrove. È in questi contesti che possiamo osservare esempi rivoluzionari di società anticapitaliste.

Oppressione dopo oppressione

I combustibili fossili richiedono il sacrificio di alcune zone del mondo, è sempre stato così. Ed è falso quello che sentiamo spesso dire, che il cambiamento climatico è colpa della “natura umana”, dell’ingordigia e della miopia tipica della nostra specie. Quando si parla di responsabilità ambientali, gli esseri umani non sono tutti uguali, sono stati i sistemi creati da alcuni esseri umani, come il capitalismo, il colonialismo e il patriarcato a portarci nella situazione in cui siamo.

Esistono altre società che hanno organizzato la vita in modo diverso, basandosi su presupposti diversi dalla crescita infinita, come il benessere delle sette generazioni a venire o la necessità di essere non solo bravə cittadinə, ma bravə antenatə. Ogni volta che la parola antropocene viene pronunciata, queste società vengono cancellate. Sono le società maggiormente impattate da megaprogetti: gli esempi purtroppo non si contano, ma in questa sede vogliamo ricordare le dighe idroelettriche in Honduras, costate la vita, tra le altre, alla paladina della terra Berta Caceres nel marzo 2016.

Non esistono metodi facili, economici e puliti per estrarre combustibili fossili, e questo sta mettendo in crisi il patto faustiano stipulato all’inizio dell’era industriale, stando al quale le conseguenze e i rischi sarebbero stati scaricati su qualcun altro, sulle periferie dei nostri e degli altri Paesi. Zone di sacrificio si allargano in ogni dove: dopo il Sud Globale, il capitalismo ha trattato le proprie periferie, i gruppi sociali più poveri, più marginalizzati, come un territorio di conquista.

Non esiste un modo pulito sicuro e non tossico per mandare avanti un’economia basata sui combustibili fossili. E non esiste neanche un modo pacifico. A differenza delle energie rinnovabili, i combustibili fossili non sono equamente distribuiti, ma sono concentrati in alcune regioni, così come del resto lo sono i minerali, le falde acquifere…

L’architetto israeliano Eyal Weizman aveva mappato alcuni anni fa l’interessante sovrapposizione tra la linea dell’aridità, vale a dire il confine metereologico delle terre interessate da meno di 200mm di pioggia l’anno, e le aree interessate da alcuni dei più violenti conflitti degli ultimi decenni. Zone che risultano ricche di carbon fossili, ma povere d’acqua, in cui gli effetti della crisi climatica si sommano agli scenari che la guerra per le risorse impone.

Una sovrapposizione, quella tra bombe e siccità, che costringe ogni anno milioni di persone a scappare verso il Nord Globale, che le respinge applicando la stessa retorica che viene usata per quei territori. Sono tutte zone di sacrificio: le terre come le comunità che le abitano. Il bisogno, sacrosanto, di un luogo sicuro in cui vivere, viene dipinto come una minaccia alla nostra sicurezza e si mutuano in Occidente le tattiche affinate in Cisgiordania, che sia il muro di Trump, i bulldozer che rasero al suolo gli accampamenti di Calais o i campi australiani sulle isole di Nauru e Manus.

Siamo davanti ad un’emergenza attuale, non futura, ma non ci stiamo comportando come se lo fosse. L’accordo di Parigi impegna i governi a mantenere il riscaldamento globale entro i +2°C. Accordo ampiamente disatteso su un obiettivo sconsiderato. Nel 2015 molti delegati africani definirono quella risoluzione una “condanna a morte” e lo slogan di molte popolazioni che abitano le isole più basse è “1,5 gradi per restare vivi”. Ma anche i 2°C sono una menzogna, perché non esistono reali sforzi in tal senso. Molti dei governi che hanno sottoscritto l’accordo negli ultimi anni hanno diminuito in maniera assolutamente risibile i propri investimenti sul petrolio, aumentando di contro quelli nel gas, la più grande menzogna verde di questo secolo. E come se questo non fosse sufficiente, con lo scoppio della guerra in Ucraina la narrazione intorno alla necessità di una riconversione ecologica ha subito un’assurda svolta. Anziché cogliere l’opportunità per una riconversione a fonti di energia rinnovabile, per un ripensamento del proprio fabbisogno energetico, i Paesi dipendenti dal gas russo hanno dato il via a progetti di centrali di rigassificazione per importare l’LGN dagli USA, stanno investendo nella riapertura di impianti a carbone o stanno riconsiderando il nucleare.

Tracciare linee di convergenza

Se finora abbiamo affrontato la crisi climatica osservando principalmente le emissioni climalteranti derivate dall’estrazione e lavorazione di fonti fossili, questo non significa che gli altri sintomi siano trascurabili.

Nature ha recentemente pubblicato uno studio in cui viene ipotizzato che, nei prossimi 50 anni, il cambiamento climatico potrebbe portare a oltre 15mila nuovi casi di mammiferi che trasmettono virus ad altri mammiferi. Lo studio è uno dei primi a prevedere lo spostamento degli habitat naturali della fauna selvatica in relazione al riscaldamento globale come fattore di rischio nello scambio inter-specie di agenti patogeni. Secondo questo studio, le specie si aggregheranno in nuove combinazioni ad alta quota, in hotspot di biodiversità e in aree ad alta densità di popolazione umana in Asia e Africa, aumentando il tasso di trasmissione di virus tra specie di circa 4mila volte. L’aumento della temperatura ci espone quindi all’aumento esponenziale delle pandemie, ma il rischio non è connesso unicamente al comportamento degli animali selvatici. Gli allevamenti intensivi sono spesso sotto accusa quando si parla di spillover: giustamente. Mega stalle e mega allevamenti si stanno diffondendo non solo in USA e in Cina, ma anche in Brasile e Africa amplificando il forte nesso storico fra l’allevamento animale e la diffusione delle malattie. In Cina pare che oggi il 70% degli allevamenti siano “landless farms” (fattorie senza terra) – e infatti in 40 anni la Cina ha quadruplicato la propria produzione animale ed è l’avidissimo mercato di mangimi oggetto, non a caso, dei litigi daziari fra cinesi e americani.

La spaventosa crescita dell’industria suinicola cinese ha già provocato mutazioni: il virus della diarrea epidemica suina (Pedv) causata da un coronavirus si trasformò in Sindrome della diarrea acuta suina (Sads-CoV) che fece strage di suinetti nel 2017. Ci trovavamo nella regione del Guang Dong, la stessa dal quale nel 2004 partì la famigerata SARS. È una di quelle in cui l’anno scorso l’influenza suina africana (Asf) ha decimato la popolazione di suini, facendo poi impazzire il mercato delle carni mondiale. Seguendo questa traccia arriviamo inevitabilmente al Covid-19. Dopo due anni di pandemia ci sono le prove, o almeno un robusto studio scientifico, di una correlazione tra cambiamento climatico e salto di specie.

Non è possibile considerare la crisi climatica come un problema tecnico, va affrontata nei contesti di neoliberismo, colonialismo e militarismo in cui viviamo. Le connessioni sono evidenti, ma la resistenza che viene opposta è ancora troppo spesso frammentaria. Chi parla di reddito e lavoro raramente parla di cambiamento climatico, chi parla di cambiamento climatico raramente parla di guerre e transfemminismo. Raramente tracciamo un collegamento tra le armi usate contro le comunità razzializzate negli USA e quelle a bordo delle motovedette che affondano o lasciano affondare ogni anno decine di imbarcazioni nel Mar Mediterraneo. Superare questo scollamento è il compito più urgente di chiunque sia interessato alla giustizia sociale ed economica. È il solo modo per sconfiggere le forze che proteggono uno status quo molto redditizio e sempre più insostenibile.

Il modello di sviluppo estrattivista e capitalista ha generato un’infinità di sintomi, crisi troppo spesso percepite come indipendenti che però non possono essere risolte una alla volta. Abbiamo bisogno di soluzioni integrate, che abbattano radicalmente le emissioni ridistribuendo le ricchezze, rivendicando reddito universale incondizionato e valorizzando dal basso la cooperazione sociale.