Un’ecologia politica oltre la dicotomia giustizialismo/buonismo

19 / 9 / 2018

Che stia succedendo un gran casino, non penso che ci sia qualcuno disposto a negarlo. E il casino (uso qui questo termine, ché “caos” ha una sua pregnanza anche positiva) è alimentato da un certo moralismo anche e soprattutto da sinistra. Da quella sinistra che, parafrasando De André, «non potendo più dare il cattivo esempio, si sente come Gesù nel tempio». Ma, dopotutto, non è stato proprio De André, a suo tempo, a fornirci con questi versi la migliore sintesi di “moralista”?

La morale post-moderna: il giustizialista e il buonista 

Attualmente, da un punto di vista etico, possiamo rintracciare due personaggi concettuali[1] centrali nella vita pubblica e istituzionale italiana: il giustizialista e il buonista. Prima di iniziare a declinare quel che, a mio avviso, esprimono questi due personaggi concettuali, mi permetto una precisazione. Ovvero, che la declinazione al maschile di entrambi non è né una svista né un rigurgito personale di sessismo; ma che essa esprime una chiara denotazione di base, fondamentale tanto per l’uno quanto per l’altro: l’orizzonte novecentesco del lavoratore salariato-maschio-bianco-etero. 

Assunto ciò come orizzonte al quale entrambi tendono, ognuno a modo suo, possiamo iniziare a delinearne le forme per poi andare al nocciolo duro della loro essenza. Negli ultimi tempi, spesso abbiamo sentito opporsi il giustizialismo al buonismo – prima da parte di una certa sinistra, poi dalla peggiore destra. Difatti, è ricorrente questa concezione delle due figure: il giustizialismo sembra indicare una certa rettitudine morale nei confronti della sovranità dello Stato, dei suoi apparati e, in primis, del suo diritto; il buonismo, di contro, sembra indicarne un’altra nei confronti del diverso, del marginale – insomma delle soggettività che sfuggono a tutto ciò cui si ispira il giustizialista. Su questa presunta  faglia, creata ad hoc dalle parti politiche parlamentari, il dibattito istituzionale si è trasformato in un campo di battaglia all’ultimo sangue. Da un lato, una certa aristocrazia qualificata in quanto tale dal suo possedere i classici presupposti occidentali per l’accesso allo stato di diritto (maschia-lavoratrice-bianca-etero); dall’altro, un’altra aristocrazia resa tale invece dalle qualità della classica “borghesia illuminata” di ottocentesca memoria (laica-benefattrice-ipocrita). 

Un’aristocrazia contro l’altra. È questo il punto: il buonista e il giustizialista sono due personaggi concettuali che possono essere immediatamente qualificati per la loro corazza aristocratica. Questo è, secondo me, il principale motivo per cui, l’uno e l’altro, nell’attaccarsi come nel proporsi in quanto migliore alternativa trovano un punto di accordo speculare: che l’altro sia, nei fatti, un lurido, uno sporco, un mostro, un analfabeta. Cioè, sostanzialmente, l’identikit perfetto della concezione sette-ottocentesca del povero

L’altro punto importante da sottolineare è il ressentiment: il sentimento propriamente reazionario, per parafrasare Deleuze con una nozione nietzscheana. Ed è proprio dall’analisi che Nietzsche ha elaborato sulla morale ebraica[2] che, oggi, possiamo comprendere al volo la stretta appartenenza tra il buonista e il giustizialista. Cioè, che entrambi – a modo loro – sono mossi dal risentimento. L’uno dal risentimento del ritornare ad un “tempo delle mele” di nostrissima memoria, con treni in orario, negri in Africa, le donne in cucina o nei bordelli, l’uomo forte in fabbrica e/o in campagna militare. L’altro, se per certi versi lo imita paventando un simile passato con le “tute blu” al posto de “l’uomo forte”, si smarca da esso avanzando un ulteriore elemento di risentimento moralistico: l’ipocrisia del suo volersi differente dal primo. 

Ma, a questo punto, siamo costretti ad aggiungere un comma a questa distinzione. E per un motivo: in quanto forze moralistiche, in quanto personaggi concettuali del risentimento, l’una deve necessariamente governare l’altra. Scoprirsi l’una maggioritaria, l’altra minoritaria. Con differenti gradazioni di ipocrisia di mezzo. Detto questo, il buonista cerca di smarcarsi dal giustizialista adottando in maniera speculare proprio i suoi atteggiamenti: vedi Minniti su ordine pubblico (taser) e immigrazioni (accordi con la Libia), vedi Renzi contro i centri sociali, vedi il PD tutto contro i NoTav, ecc. E, dulcis in fundo, il riciclo del giustizialismo di sinistra anti-Berlusconi in un giustizialismo anti-Salvini. Che sfocia, poi, come sempre, in una difesa strenua della legalità come unico spazio istituzionale in cui agire “da sinistra” – condannando, dunque, qualsivoglia costruzione di agibilità politica fuori dal campo del diritto borghese. 

Organizzare e mettere in rete i mostri: per un’ecologia politica

Accanto e oltre, c’è la mostruosità – l’alterità, cioè, che in tempi come questi si manifesta come un qualcosa di multiforme, terribile, pericoloso. I mostri ci sono sempre stati, e sempre ci saranno – soggettività che, giorno per giorno, sfuggiranno per scelta o per necessità tanto al campo giustizialista-legalista quanto a quello ipocrita-buonista. L’abbiamo fatta finita con la sinistra, facciamola finita col moralismo che ne sta alla base. Così, forse, potremo riappropriarci della nostra potenza e tradurla – violentemente, come è violento qualunque cambiamento – in atto. 

È appunto questo che succede da anni in diversi territori, tra cui la storica ZAD nel nord della Francia o la foresta di Hambach in Germania. Un’estensione macroterritoriale dei potenti vettori prodotti dai processi di soggettivazione collettiva e dal basso, in un movimento che parte dai territori e che si estende anche oltre i confini nazionali. Movimenti che hanno colto la performatività di un conflitto collocatosi nel punto più alto della contraddizione tra capitale e ambiente: quello della crisi climatica, della crisi della riproduzione biologica e sociale, della necessità di costruire forme di vita altre e, con esse, un nuovo vocabolario rivoluzionario.

Sono proprio questi gli spazi politici in cui vengono sperimentate nuove forme di governance del Comune, attraverso una continua traduzione (dunque, una costruzione forse imperfetta, ma sempre felice) della volontà di alteristituzioni[3] in forme di vita collettiva. È in questa maniera che l’Altro e l’Altrove si riscoprono come forze attive, sole ad esser capaci di costituirsi non solo come antagoniste del giustizialismo leghista e/o di sinistra, ma anche come soggetti di quel fare moltitudine di cui da anni si parla. Infatti, non è proprio vero che queste esperienze hanno dimostrato che «nello spazio tra lo Stato nazionale e l’Impero, il federalismo garantisce la produzione e la stabilità di una trama di differenti mediazioni territoriali»? Ovvero che in questi spazi di produzione delle lotte «le fonti del diritto e gli strumenti operativi della legittimazione sono fondati esclusivamente sul potere costituente e sul processo decisionale democratico»[4]?

Dunque, questi esempi virtuosi di pratica dell’ecologia politica (dal livello micro-territoriale al livello transnazionale) possono essere la base da cui costituirsi  come forza plurale e sociale, che sappia tradurre le lotte dei mondi e intersecarle fino a crearne un altro di mondo – secondo la celebre formula zapatista. Ma è possibile anche altro, e di più rispetto a questo – l’abbandono tanto del giustizialismo quanto del buonismo. Perché, se il primo cade di fronte alla continua auto-poiesi di un diritto dinamico e centrifugo, il secondo si scopre nella sua debolezza rispetto a pratiche di intersezione delle lotte che ne superano la dimensione pubblicistica e abbracciano quella di una diretta riappropriazione di diritti da parte di tutte le soggettività coinvolte nella lotta.

*Marco Spagnuolo studia filosofia all’Universita di Bari, e si occupa di reddito, lavoro e del pensiero post-operaista di cui ha scritto su Effimera.org.



[1] Si veda: G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002

[2] F. Nietzsche, Genealogia della morale, Einaudi, Torino

[3] Sull’alteristituzione, si veda M. Baravalle, Alteristituzioni e autonomia. Tra governamentalità e autonomia, OperaViva, 03 agosto 2018: https://operavivamagazine.org/alteristituzioni-e-arte/

[4] Entrambe le citazioni da: A. Negri, M. Hardt, Comune. Oltre il pubblico e il privato, Rizzoli, Milano 2010, pp.372-373