Vaccini e Covid: alcune cose da sapere. Per una divulgazione scientifica al di là dei baroni mediatici

Intervista di Anselmo Vilardi e Tommaso Baldo a una persona che fa ricerca in ambito medico per la rubrica “Note sulla pandemia”

20 / 10 / 2021

Intervista di Anselmo Vilardi e Tommaso Baldo a una persona che fa ricerca per la rubrica “Note nella pandemia”

Sull'informazione governativa sul Covid, e sui vaccini in particolare, si sono scontrate due visioni: da una parte l'idea di fornire messaggi il più semplificati possibili da far accettare in maniera passiva dalla popolazione in modo tale da dare certezze in una situazione di estrema difficoltà; dall'altra la spinta insita in molti cittadini a costruirsi un proprio pensiero autonomo di fronte a un tema così vitale in questo periodo storico.

Il racconto fornito dalla comunicazione mainstream televisiva, giornalistica e anche social, così concentrata sul mostrare al pubblico le verità di pochi "esperti" di alto livello, ognuno però con sfumature di visione propria, ha rischiato tuttavia di non soddisfare sia chi voleva pochi messaggi semplici e immediati, sia chi voleva un racconto effettivamente pluralista per potersi costruire una propria visione. Tra questi ultimi molti sono stati così spinti ad allontanarsi dalla verità scientifica e a farsi influenzare dagli influssi spesso caotici provenienti da internet.

Noi, come moltissime altre persone, ci siamo posti in questi mesi tutta una serie di domande. Per trovare delle risposte abbiamo scelto di rivolgerci ad una ricercatrice, una delle tante persone che effettivamente lavorano alla raccolta e all'analisi dei dati sulla pandemia e che ha scelto di contribuire a questo tentativo di condivisione dei saperi al fine di cercare di colmare l'enorme frattura tra quello che è noto agli “addetti ai lavori” e quello che viene comunicato al grande pubblico.

La persona che intervistiamo è costretta a rimanere nell'anonimato perché le istituzioni hanno una propria linea comunicativa e non è ammesso fuori dall’ambito strettamente accademico che i ricercatori forniscano un proprio punto di vista personale e informato, in quanto lavoratori/lavoratrici dipendenti.

Questa condizione di anonimato, questo “nascondersi il volto per diventare visibili”, che è spesso una necessità di auto-tutela per molte soggettività in lotta, pone anche un elemento che ci aiuta nel tentativo di fare una divulgazione scientifica diversa da quella dei media borghesi. In tv e sui giornali mainstream si chiede il parere di un “grande esperto”, si chiede di credere a “colui che sa”, come un tempo si credeva al prete o allo sciamano; si  nega quindi il metodo scientifico nel momento in cui si comunicano i risultati da esso ottenuti, in un cortocircuito che non può che avere conseguenze negative nel rapporto tra grande pubblico e divulgazione scientifica.

Intervistare un*anonim* significa invece rivolgersi ad un altr* lavoratore/rice e chiedergli non qualche “verità” ma qualche coordinata di metodo su come funziona il suo mestiere per sapere come orientarsi, dove trovare informazioni attendibili, come funziona il mondo della produzione scientifica, come correre meno rischi nella nostra vita quotidiana e cosa poteva essere fatto e non è stato fatto da parte delle classi dirigenti.

Non troverete quindi in questa intervista rivelazioni sensazionali o profezie, ma un onesto sunto della letteratura scientifica sull'argomento, accompagnato dalle fonti citate, in modo che ciascuno possa verificare e trarre le proprie conclusioni.

Potresti illustrare brevemente "come funziona" lo sviluppo delle conoscenze sulla pandemia e in particolare il funzionamento della ricerca scientifica, compreso il fatto che sia realizzata da un gran numero di persone, spesso precarie o sottopagate?

La ricerca è tante cose diverse intanto, perché si passa dalla ricerca di base, che può svolgersi nel vero e proprio laboratorio con le provette e il resto, alla ricerca applicata, a quella sui dati propri o di altri a cui applicare rigorosi strumenti statistici che ci permettano di validare o rigettare ipotesi. In generale procede attraverso l’acquisizione di dati che derivano da esperimenti o dal mondo reale, a seconda che si tratti dello sviluppo di vaccini e farmaci o di conoscenze sul comportamento e l’evoluzione epidemiologica della pandemia, per esempio.

Secondo l’ISTAT   nel 2018 in Italia la spesa complessiva, pubblica e privata, in “ricerca e sviluppo” è stata di 25,2 miliardi di euro, poco più dell'1,4% del Pil, ma la spesa statale in ricerca è di poco inferiore allo 0,5% del Pil (circa 9 miliardi di euro). Rispetto ad altri Paesi europei, i dati OCSE mostrano che facciamo peggio e siamo a livelli inferiori rispetto alla media UE, che si attesta intorno al 2,2% (Italia 1,4%, Francia 2,2%, Germania 3,1%, Regno Unito 1,7%, Spagna 1,2%). In Italia ci sono 6 ricercatori ogni mille occupati (OCSE), in Francia 10,9, in Germania 9,7, nel Regno Unito 9,4 e in Spagna 7,1. Inoltre, i nostri ricercatori sono anche più anziani rispetto a quelli degli altri Paesi. 

Rispetto al tipo di ricerca finanziata nel nostro Paese la principale voce di spesa  è quella della ricerca applicata (quella finalizzata a una specifica applicazione) con 10,3 miliardi di euro (il 40,9% sul totale). Al secondo posto c’è lo sviluppo sperimentale (destinato alla creazione o al perfezionamento di nuovi prodotti o servizi – con 9,5 miliardi (37,7 %). Infine, in terza posizione c’è la ricerca di base – finalizzata in primo luogo all’ampliamento delle conoscenze e finanziata sostanzialmente dallo Stato– con circa 5,4 miliardi (21,4%). Quest’ultimo dato è rimasto pressoché stabile negli ultimi anni. La ripartizione delle risorse riflette la dinamica indicata sopra: alla ricerca applicata e allo sviluppo sperimentale vanno più risorse, dal momento che la fonte di maggiore investimento per la spesa in “ricerca e sviluppo” sono le imprese e i privati. 

Da questo deriva certamente la connotazione precaria di molti ricercatori, i loro salari bassi e la sostanziale ricattabilità degli stessi rispetto agli argomenti su cui fare ricerca e talvolta anche rispetto alle posizioni che si sostengono sui social o in pubblico.

Alla domanda

«I no vax sono uno dei segni dell’arretramento della scienza? »

Giorgio Parisi, eminente fisico, premio Nobel per la fisica 2021, e Presidente dell’Accademia dei Lincei ha risposto:

«Sono una piccola parte, resteranno il 10-15%. Ma dimostrano che non abbiamo saputo spiegare a tutti come funziona il nostro metodo. Non c’è un ricercatore che abbia la verità in mano, o uno studio scientifico che dia una dimostrazione definitiva. Esiste un consenso che si accumula gradualmente attorno a prove sempre nuove, con un meccanismo di autoregolazione che corregge gli errori. Il messaggio non è sempre passato, con la pandemia. Da una parte le informazioni di base, ad esempio cos’è l’RNA che è nei vaccini, non sono in possesso di tutti. Dall’altra è mancata una comunicazione efficace. In Germania un virologo molto qualificato è diventato star di YouTube. Le sue spiegazioni sul COVID hanno milioni di visualizzazioni. Un ruolo simile sarebbe servito anche a noi».

Veniamo poi al problema della fruizione delle informazioni da parte del pubblico: come ci possiamo orientare per capire qualcosa, in particolare quali fonti su internet consigli di leggere per raccogliere le notizie che servono a una "persona comune" in questa fase; come possiamo rapportarci di fronte ai dati o alle narrazioni che ci vengono proposte, spesso sui social, per avere uno sguardo critico.

Bisogna diffidare di qualcuno che parli di sé e dei propri studi come detentore della verità, e soprattutto se medico o ricercatore, perché questi soggetti hanno o avrebbero dovuto imparare le basi della metodologia scientifica e applicarla quotidianamente nel loro lavoro. Nessun ricercatore serio parlerebbe di certezze sbandierate, ma porterebbe evidenze che provengano da riviste scientifiche autorevoli, con dati verificabili e metodi solidi e il suo discorso sarebbe incentrato su rischi e probabilità.

Io consiglio di affidarsi principalmente a siti governativi anche in inglese, se si riesce a leggere contenuti in lingua, perché quelli in italiano sono spesso aggiornati con molto ritardo. Siti come 

- quelli dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità),

- dell’ECDC (European Center for Disease Control and Prevention – EU),

- del CDC (Centers for Disease Control and Prevention – USA), di Public Health England (UK),

 e l’Independent SAGE, formato da un gruppo di scienziati che stanno lavorando insieme per fornire consulenza scientifica indipendente al governo del Regno Unito e al pubblico su come ridurre al minimo i decessi e sostenere la ripresa della Gran Bretagna dopo la crisi legata alla COVID-19; in Italia c’è Infodata del sole 24 ore che presenta anche dati sulla pandemia.

Tra i divulgatori scientifici italiani ci sono varie pagine molto utili, da quella di Roberta Villa, medica e divulgatrice, a quelle di scienziati veri e propri che spiegano questioni relative al COVID-19, come Enrico Bucci,Giorgio Gilestro o Marco Gerdol, tutti biologi con diverse sottospecializzazioni come Pier Luigi Lopalco, epidemiologo.

Segnalo inoltre la pagina facebook Pop Medicine, a cui tra l’altro Gerdol contribuisce spesso.

Credo che una delle cose che hanno spinto alcune persone a essere refrattarie alla vaccinazione sia un aspetto della narrazione governativa: il vaccino come pulsante che premi e spegni la pandemia. Questa narrazione ha favorito un racconto sostanzialmente fideistico ed emotivo dello strumento vaccino (pro e contro), completamente privato della complessità insita in qualsiasi fenomeno naturale, e ha impoverito al contrario quell'educazione scientifica dei cittadini che avrebbe dovuto essere il cuore della risposta alla pandemia di una società realmente pluralista.

Inoltre è stata usata sostanzialmente anche per giustificare cose come lo sblocco dei licenziamenti, il riaccorpamento di alunni e alunne in classi-pollaio, insomma per far passare un ritorno al passato e un disimpegno dello Stato nella tutela dei più colpiti da questa pandemia, in tutti gli ambiti. Cosa possiamo invece realisticamente aspettarci dai vaccini? Qual è il modo di raccontarli correttamente?

In primo luogo c’è da tornare di nuovo indietro al valore della prevenzione e dei servizi territoriali, spesso svuotati del loro senso da tagli indiscriminati degli ultimi 20 anni, da una medicina generale molto diversa da zona a zona e da medico a medico, anche perché questi medici sono in convenzione e non dipendenti dal SSN etc. 

Voglio anche dire che la prevenzione è in qualche modo un atto di fede e soprattutto nella prevenzione, che si tratti della campagna vaccinale per i bambini o lo screening per il tumore del collo dell’utero, del colon e della mammella (quelli previsti per certe fasce d’età, sesso e a determinati intervalli), è fondamentale stabilire un rapporto di fiducia e spendere tempo col paziente o con i genitori del bambino per spiegare il valore, i rischi e i benefici dell’atto medico che si sta compiendo. Invece il rapporto fiduciario tra medico e paziente è stato minato e anche per le vaccinazioni pediatriche si è ricorsi all’obbligo, ritenendo che non si potesse tollerare una copertura vaccinale ridotta troppo a lungo, dato che una campagna di sensibilizzazione della popolazione prenderebbe sicuramente molto tempo, anni.

I vaccini non hanno mai un’efficacia del 100% e quindi era già sbagliato presentarli come l’arma finale contro la pandemia per “il ritorno alla normalità”. Qui si ripropone il problema strategico di tutta la pandemia secondo me, che è quello della comunicazione e della trasmissione alla popolazione del concetto di rischio. E per questo ci vogliono comunicatori della scienza, non medici o ricercatori. Invece, a parte qualche spot sul lavaggio delle mani e l’uso della mascherina prima, e sulla campagna vaccinale poi (sempre con toni un po’ troppo trionfalistici e assolutistici), non si è di fatto attuata alcuna reale comunicazione governativa, che è il fattore che avrebbe fatto la differenza nel rapporto tra governo, scienza e popolazione.

I vaccini andavano presentati proprio nella cornice della valutazione del rischio, spiegando che il rischio di eventi avversi se si contrae il virus di certo aumenta con l’età, ma che ancora non sappiamo fino in fondo a chi la malattia COVID-19 verrà in forma severa e a chi no, a parità di condizioni. 

Tra i giovani adulti sotto i 40 anni ci sono stati circa 400 morti in Italia, una percentuale minima dei circa 130.000 decessi totali, ma comunque un dato non trascurabile se si pensa che tra questi c’erano anche soggetti sani. Si sarebbe dovuto spiegare quindi che la COVID-19 dà molti più problemi a livello di vari organi, incluse tromboembolie, e ne dà in misura estremamente maggiore rispetto a qualsiasi vaccino, incluso quello AstraZeneca. Si sarebbe dovuto chiarire già da mesi che il Long Covid è una sindrome a lungo termine post infezione che può riguardare tutti, inclusi i bambini ed inclusi i soggetti che abbiano avuto la COVID-19 in forma lieve o asintomatica, e che perciò non è neutro infettarsi per i più giovani.

Ci si può aspettare, come già avviene da mesi, che si riducano tantissimo i casi gravi e le morti da COVID per effetto della vaccinazione di massa, e dato che si riduce parzialmente anche la trasmissione del virus, anche la circolazione virale è ridotta per effetto del vaccino. Tutti questi effetti benefici sono però ridotti con la variante Delta, ormai dominante anche in Italia, per cui si doveva spiegare già da prima, ma a maggior ragione adesso, che le misure di prevenzione, tra cui soprattutto l’uso della mascherina (preferibilmente ffp2 e non chirurgica, e assolutamente non di stoffa) dovevano essere proseguite ad libitum, in particolar modo in ambienti chiusi dove si trascorrono tempi prolungati, come sul lavoro o a scuola.

Riporto qui uno stralcio da me tradotto di un articolo non scientifico, pubblicato su NPR, in inglese, sul Long Covid. Si afferma che 

«Il long COVID è un tipo di malattia mutevole che può abbracciare dozzine di sintomi: un ampio studio internazionale ne ha individuati più di 200. Alcuni dei più comuni includono mal di testa, affaticamento, nebbia del cervello (brain fog) e mancanza di respiro. Può verificarsi dopo infezioni gravi e lievi, sia negli anziani che nei giovani. Secondo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC), dal 10% al 30% delle persone infettate dal coronavirus presenterà sintomi persistenti che durano almeno un mese. Molti con Long COVID continuano ad affrontare i sintomi per molti mesi, anche più di un anno dopo l'infezione iniziale». 

4) All'inizio si poneva l'obiettivo di raggiungere l'immunità di gregge: ma cosa si intende per immunità di gregge? È un obiettivo realistico? E dato il contesto globale, si può parlare di immunità di gregge in un solo paese, con gran parte dell'umanità non vaccinata?

L’immunità di gregge è un concetto ben noto per tutte le malattie prevenibili da vaccino, e si verifica quando la maggior parte della popolazione (in una percentuale variabile a seconda della malattia, dipendente da quanto sia trasmissibile e da altri fattori) è vaccinata ed ha anticorpi efficaci a proteggerli contro una determinata malattia infettiva, allora quel patogeno (sia esso virus o batterio) circola meno nella popolazione fino potenzialmente ad essere eradicata del tutto e per sempre, come è avvenuto ad esempio per il vaiolo. 

La percentuale di individui immuni che impedisce a una malattia infettiva di diffondersi in modo epidemico è chiamata "soglia minima di immunità di gregge", (dall'inglese HIT, Herd Immunity Threshold). All’aumentare del numero di individui immuni, si riduce la probabilità di contatto tra individui infetti e suscettibili e la circolazione del patogeno. Se la percentuale di soggetti immuni nella popolazione è superiore all'HIT, la malattia epidemica può essere contenuta o eliminata

È importante sapere quanto duri l’immunità da vaccino e quella data da infezione e anche quanto trasmissibile sia la variante predominante nel Paese per poter dire quale sia il valore soglia, tra il 70 e il 90% teoricamente, necessario per raggiungere l’immunità di gregge. Ma con la variante delta molti ricercatori hanno postulato che sia impossibile ormai raggiungere l’immunità di gregge. 

Secondo il CDC: 

-La variante delta è altamente contagiosa, più di 2 volte più contagiosa delle varianti precedenti.

-Alcuni dati suggeriscono che la variante Delta potrebbe causare malattie più gravi rispetto alle varianti precedenti nelle persone non vaccinate. In due diversi studi condotti in Canada e in Scozia, i pazienti infetti dalla variante Delta avevano maggiori probabilità di essere ricoverati in ospedale rispetto ai pazienti infetti da Alpha o dal virus originale che causa il COVID-19. Anche così, la stragrande maggioranza dei ricoveri e dei decessi causati da COVID-19 riguarda persone non vaccinate.

-Le persone non vaccinate rimangono la preoccupazione maggiore: il rischio maggiore di trasmissione è tra le persone non vaccinate che hanno molte più probabilità di contrarre l'infezione e quindi di trasmettere il virus. Le persone completamente vaccinate contraggono il COVID-19 (noto come infezioni rivoluzionarie) meno spesso rispetto alle persone non vaccinate. Le persone infette dalla variante Delta, comprese le persone completamente vaccinate con infezioni sintomatiche, possono trasmettere il virus ad altri. Il CDC sta continuando a valutare i dati sulla possibilità che le persone completamente vaccinate con infezioni asintomatiche “breakthrough” possano trasmettere il virus.

-Le persone completamente vaccinate con infezioni “breakthrough” della variante Delta possono diffondere il virus ad altri. Tuttavia, le persone vaccinate sembrano diffondere il virus per un tempo più breve: per le varianti precedenti, sono state trovate quantità inferiori di materiale genetico virale in campioni prelevati da persone completamente vaccinate che avevano infezioni rivoluzionarie rispetto a persone non vaccinate con COVID-19. Per le persone infette dalla variante Delta, sono state trovate quantità simili di materiale genetico virale sia tra le persone non vaccinate che tra quelle completamente vaccinate. Tuttavia, come le varianti precedenti, la quantità di materiale genetico virale può diminuire più rapidamente nelle persone completamente vaccinate rispetto alle persone non vaccinate. Ciò significa che le persone completamente vaccinate probabilmente diffonderanno il virus per meno tempo rispetto alle persone non vaccinate.

Ovviamente è vero che non saremo al sicuro finché tutti non saranno al sicuro. In un mondo globalizzato, con continua circolazione di persone e merci, e contemporanea assenza di blocco delle frontiere, è impensabile che assicurare la nostra immunità ad un buon livello, ci tolga dalla pandemia automaticamente. Dove il virus continua a circolare potranno formarsi nuove varianti magari anche più contagiose/trasmissibili e magari più capaci di evadere al vaccino. Per questo risulta ancora più assurdo che solo in Italia stiamo facendo scadere circa 100 milioni di dosi di vaccini invece di prevedere con un minimo di anticipo di poterli donare a Paesi che non li hanno.

Riassumendo, vaccinarsi è solo un atto di autotutela o è qualcosa che si fa anche per gli altri e le altre? Che rapporto c'è in generale tra vaccinazione e volontà di contribuire ad una dimensione di cura collettiva?

Spero sia chiaro da quanto detto finora che il vaccino è assolutamente un mezzo per tutelare non solo se stessi ma anche chi ci è vicino. Se anche la trasmissione virale non fosse ridotta del 100% dalla vaccinazione, come non è soprattutto nel caso della variante Delta, avremmo comunque una riduzione importantissima anche se fosse solo del 60%. Eviteremmo di contagiare i nostri cari più anziani, ma pensiamo anche al contagio dei bambini dell’asilo nido e dell’asilo, in una fascia d’età in cui non c’è socialità autonoma e dove i bimbi vengono contagiati dai genitori e non viceversa (la situazione si inverte col crescere dell’età). Purtroppo bisogna notare anche qui come le motivazioni date alla ripresa delle attività produttive, lavorative in ogni loro forma e in presenza a partire dal 15 ottobre siano meramente di matrice economica e non umanitaria o dettate dalla solidarietà tra classi sociali, gruppi di età diverse e via dicendo.

Oltre (e non certo in alternativa) al vaccino, quali altre cose si possono fare per limitare contagi e decessi? ovvero i tamponi gratis potrebbero servire? E i tracciamenti?

Adesso che il greenpass è stato esteso anche ai luoghi di lavoro mi sento di fare una riflessione che già avevo maturato sull’obbligo vaccinale. Dopo mesi di somministrazioni di vaccini con l’emersione e l’identificazione di eventi avversi, anche i più rari, preferirei che lo stato prendesse in carico la questione sancendo l’obbligo, per comprovate ragioni di sanità pubblica, e non che ricorresse ancora al greenpass, strumento molto imperfetto. 

Lo è in primis perché viene rilasciato anche a seguito di una sola dose di vaccino, mentre ormai sappiamo che una dose è del tutto insufficiente a proteggere contro la variante Delta. Inoltre scarica sui singoli la responsabilità di vaccinarsi, mentre esiste un’emergenza di sanità pubblica che obbliga a scelte forti. 

I tamponi sono già gratis per i sintomatici o per chi sia tra i contatti stretti di un positivo, i medici di medicina generale possono prescriverlo con un codice specifico che ne garantisce la gratuità. Certamente però, investire sul sistema delle tre T (testare, tracciare, trattare) per ogni singolo caso servirebbe ad arginare i focolai sul nascere. Il problema è che su input delle Regioni, si è deciso di equiparare i tamponi antigenici ai molecolari per facilitare le operazioni di contact tracing, ma questo non è corretto. Se si hanno sintomi simil-influenzali sarebbe corretto fare sempre e comunque un tampone molecolare, riservando i tamponi antigenici (per quanto “evoluti”) allo screening degli asintomatici, o a motivi di viaggio o, adesso, all’ottenimento del greenpass. 

Per tracciare i contatti si dovevano assumere laici da formare ad hoc per indagare tutte le catene di contagio, allestendo massivamente luoghi dove poter isolare gli individui dalle loro famiglie, altrimenti si creano automaticamente cluster familiari (vedi quel che hanno fatto in Cina prima con le fever clinic e poi con i luoghi deputati all’isolamento). 

Per il tracciamento in Corea del Sud come in altri paesi in estremo oriente le app installate sul cellulare deputate al tracciamento hanno funzionato bene anche perché, senza installarle, erano impedite entrata e uscita dal Paese e molte altre attività. Insomma abbiamo rinunciato molto presto ad attuare la strategia delle tre T e a tentare almeno di sopprimere del tutto la circolazione virale, eccetto che per il primissimo lockdown totale, da cui comunque sono state escluse le attività “essenziali” a cui sono state assimilate molte attività produttive per convenienza (per non menzionare quel che è accaduto nella bergamasca a causa dell’interferenza di Confindustria nelle scelte del Governo).

A seguito delle discussioni delle ultime settimane sul greenpass, mi sento di aggiungere che i tamponi gratuiti potrebbero essere garantiti dallo Stato e/o dal datore di lavoro per tutti, per screening e non solo per chi non si è vaccinato e che, ormai, temo non lo farà, vista la polarizzazione del dibattito e lo sfumare della finestra di opportunità che avrebbe permesso di virare verso l’obbligo vaccinale senza creare ulteriori ambiguità.

Amici e amiche che sono ricorsi recentemente a cure ospedaliere hanno riscontrato da parte del personale sanitario (almeno qui in Trentino) una grande attenzione alla possibilità di reazioni avverse da vaccino, non mi pare vi sia alcuna volontà di "nasconderle", ma anzi la volontà di individuarle e curarle, sapendo che sono possibili. Ma quanto sono possibili? Ci sono dei dati in proposito? dove possiamo trovarli? Sono state individuate delle costanti che consentono di individuare categorie di popolazione più esposte alle reazioni avverse? Queste reazioni avverse sono risolvibili?

Per prima cosa bisogna chiarire che nella definizione “reazioni avverse” ricade un po’ tutto quel che può succedere a seguito dell’iniezione del vaccino, ma che la stragrande maggioranza di queste reazioni sono lievi o del tutto trascurabili. In alcuni casi rarissimi si sono verificate reazioni avverse gravi, alcune parzialmente attese o note per la tipologia di vaccino e altre ignote. Questo si spiega col fatto che, per ragioni statistiche, che hanno a che fare con la probabilità di un evento e con la numerosità di un campione, le reazioni avverse molto rare non possono emergere in fase di trial, ma solo in fase post-marketing, cioè quando il vaccino (o farmaco che segue le stesse regole) viene somministrato, previa autorizzazione (condizionata in questo caso) a centinaia di migliaia e poi a milioni e infine, come adesso a centinaia di milioni di persone. Abbiamo accumulato ormai tantissimi dati su queste reazioni, e sono rintracciabili sul sito dell’AIFA (Agenzia italiana del farmaco) che diffonde periodicamente dei rapporti dedicati alla sicurezza dei vaccini anti-COVID. Anche altri Paesi hanno “archivi” simili, in particolare è di facile consultazione quello relativo alle reazioni avverse segnalate tramite cartellini gialli o yellow card in Gran Bretagna e rintracciabili sul sito dell’organo che ha sostituito EMA dopo la Brexit per la regolamentazione dei farmaci nel Paese (MHRA).

L’ultimo rapporto sui vaccini pubblicato da AIFA evidenzia che attualmente 16 decessi totali sono stati correlati ai vaccini anti-COVID, anche senza addentrarsi in statistiche complicate, c’è un rischio fortemente più alto di avere reazioni gravi anche tromboemboliche prendendosi il covid rispetto a quelle che si rischiano vaccinandosi. Dunque su oltre 45 milioni di Italiani vaccinati ci sono 16 decessi che sono considerati correlabili ai vaccini. Di questi alcuni casi sono trombosi collegate al vaccino AstraZeneca (che ora non si somministra più ai soggetti a rischio), gli altri persone con patologie anche gravi, che sono morte nei giorni successivi alla vaccinazione e non si può escludere che questo abbia influito. Parliamo in totale di un tasso di 0.3 per MILIONE. Il COVID uccide nel 2 per cento dei casi i non vaccinati e dieci-venti volte di meno i vaccinati a doppia dose (cioè 1-2 per mille). Tra 2 per mille e 0.3 per milione passano 4 ordini di grandezza.

Per il vaccino Pfizer: “I sintomi più frequentemente associati fra loro nelle schede di segnalazione gravi correlabili sono febbre alta, cefalea, astenia e dolori articolari e muscolari in un quadro di sindrome simil-influenzale, indipendentemente dal numero di dose. Altre associazioni di sintomi osservate sono: linfoadenopatia e iperpiressia con astenia; cefalea e parestesie con dolori articolari e muscolari; eruzioni cutanee e malessere generale; lipotimie, malessere generale e vertigini. Fra le reazioni avverse di interesse, sono stati segnalati 6 casi di miocardite/pericardite ogni milione di dosi somministrate, 3 casi di reazioni anafilattiche ogni milione di dosi somministrate e 2 casi di paralisi del facciale ogni milione di dosi somministrate.” Riporto queste informazioni per far capire che esistono reazioni avverse con tutti i vaccini anti-COVID, non certamente solo con il vaccino AstraZeneca. Per quest’ultimo sono emerse delle reazioni particolarmente gravi e molto specifiche ma anche estremamente rare, la cui comunicazione al pubblico si sarebbe dovuta gestire in maniera molto più inclusiva e “didattica”, invece di farsi guidare dalla comprensibile emotività dell’opinione pubblica.

Fonti:

http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato2346272.pdf

https://yellowcard.mhra.gov.uk/