Venezia nella pandemia: La crisi del settore alberghiero

2 / 11 / 2020

Per la rubrica "La maledizione di Adamo" pubblichiamo il secondo articolo del "Gruppo nord est di inchieste dal basso", che questa volta incentra il suo sguardo su Venezia e sugli effetti che la pandemia ha portato in una città che ha completamente modellato la propria economia sul turismo.

“Se 'ndava a la Giudeca/ a lavorar da Stucky/ e dopo tanti sachi/ i ne ga licensià” cantavano Luisa Ronchini e Alberto D’Amico nel Canzoniere Popolare Veneto. Nel frattempo, i tempi sono cambiati e il Molino Stucky non produce più “montagne de farina” ma notti in camere a cinque stelle per conto di Hilton Worlwide. La traiettoria di uno degli edifici moderni più noti di Venezia ben rappresenta la terziarizzazione dell’impiego, un trend ormai globale che nella città lagunare è sfociato decisamente su una preponderanza economica del turismo. Quello che non è cambiato, però, sono i licenziamenti.

Secondo i dati Istat, la provincia di Venezia è caratterizzata dal terzo più alto tasso di turisticità (il rapporto tra giornate di presenza nelle strutture alberghiere e abitanti) in Italia, dopo Bolzano e Rimini. Nel 2011, anno dell’ultimo censimento, gli occupati nel settore “Commercio, alberghi e ristoranti” nella provincia erano 84.178 – un decimo della popolazione e quasi un quarto degli occupati – e sono senz’altro aumentati nel frattempo, essendo che il numero di hotel a Venezia è schizzato da 387 nel 2008 a 549 nel 2018.

Ma oggi gli aerei restano a terra, le camere degli hotel sono perlopiù vuote, le grandi navi non si fanno vedere nella laguna e le calli sono finalmente vivibili. Tuttavia, nella società attuale chi paga caro i conti in rosso sono le lavoratrici e i lavoratori più esposti alle fluttuazioni dei mercati. Secondo Federalberghi, se le presenze nelle strutture alberghiere italiane nel secondo trimestre del 2020 sono diminuite del 90% rispetto al 2019, i loro occupati sono diminuiti del 62%. I primi espulsi dalla produzione sono stati gli assunti a tempo determinato, gli autonomi o i lavoratori in nero – figure com’è noto assai abbondanti nel turismo – ma è chiaro che quando verrà sollevato il blocco dei licenziamenti si apriranno gli argini di un ulteriore esodo forzato dal settore. A Venezia le avvisaglie si sono già viste per esempio all’Hotel Bellini, dove il committente NH Hotel Group – in buona parte di proprietà del miliardario William Heinecke – ha comunicato di non aver più bisogno dei facchini della società in subappalto IVH Group.

I lavoratori del settore alberghiero sono un segmento importante di quella compagine altamente eterogenea e dispersa in una moltitudine di unità produttive che è la forza-lavoro dipendente dal turismo a Venezia, fatta di lavoratori della ristorazione, artisti, commessi, venditori ambulanti, tassisti, gondolieri, guide turistiche, ecc. Il personale di un hotel si suddivide a sua volta negli addetti alla reception, al ristorante, alla pulizia e alla manutenzione. Le cameriere ai piani e i facchini sono quasi sempre esternalizzati tramite cooperative o aziende terze. È proprio qui che si riscontrano i livelli salariali e le condizioni contrattuali inferiori. Si tratta di una composizione per lo più migrante – anche se gli italiani non mancano – rigidamente divisa lungo la linea di genere: le donne fanno le pulizie e gli uomini muovono merci e bagagli. Il pendolarismo è largamente maggioritario, con spostamenti giornalieri da tutta la provincia di Venezia e anche da parti di quelle di Treviso e Padova. D’altronde si sa che il turismo di massa stesso – come simboleggiato da AirBnB – rende sempre più difficile abitare a Venezia.

Come succede per il mondo del lavoro in generale, la pandemia illumina e al contempo inasprisce disuguaglianze e situazioni di precarietà precedentemente in essere. Vediamo quindi le conseguenze, in questo settore come in altri, dell’imposizione di una flessibilità estrema alla forza lavoro tramite sistematiche forzature di una legislazione già di per sé volta a garantire la libera accumulazione di profitto. Ricapitoliamo quattro tra gli espedienti più significativi:

-Le esternalizzazioni di comodo: la legge prevede che sia possibile esternalizzare il personale solo per quelle mansioni in cui ci possa essere una netta separazione tra committente e società in appalto. Capita però che i lavoratori “sotto cooperativa”[1] lavorino a stretto contatto con gli assunti diretti e ricevano quindi ordini dalla direzione dell’impresa committente. Se negli alberghi questo tende a non succedere per le cameriere ai piani, accade invece più spesso nel caso dei facchini.

-Il sistema degli appalti: l’ormai tristemente noto pilastro della “precarietà a tempo indeterminato”, fa sì che si possa lavorare anni o decenni per lo stesso committente, cambiando però periodicamente società in appalto e quindi – formalmente – datore di lavoro. Si rischia così ogni volta di perdere l’anzianità accumulata ed eventuali miglioramenti contrattati con la società precedente, quando in discussione non è il posto di lavoro stesso.

-Contratti nazionali “a piacere”: i padroni di uno stesso settore possono applicare contratti più o meno “ricchi” nonostante le mansioni svolte dai dipendenti rimangano invariate. Nel caso del settore alberghiero, viene usato dagli uni il contratto del turismo e dagli altri il contratto multiservizi e pulizie, quando quest’ultimo presenta una serie di elementi sfavorevoli, primo fra tutti una forte perdita di salario.

-Il cottimo surrettizio: le cameriere ai piani sono di solito assunte con contratti di part-time involontario e tendono a lavorare tra le tre e le cinque ore al giorno. Il “tempo di lavoro socialmente necessario” per la pulizia di una camera è considerato essere attorno ai venti minuti (con oscillazioni in eccesso o in difetto in base al numero di “stelle” della struttura), a prescindere dalle condizioni concrete in cui una certa camera venga a trovarsi. Il numero di ore pagate non corrisponde quindi al tempo di lavoro erogato ma al numero di camere assegnate, cosa che si traduce in un cottimo di fatto.

È facile capire come – essendo questa la normalità – le lavoratrici e i lavoratori del settore si trovino in una situazione di estrema vulnerabilità in tempi di crisi. Il licenziamento può di fatto avvenire tramite il cambio d’appalto giacché anche se i contratti sono a tempo indeterminato essi sono vincolati all’appalto in corso. Molti dei lavoratori superstiti, poi, potranno essere chiamati a lavorare per pochissime ore. Gli ammortizzatori sociali concessi durante la quarantena – quando i battenti degli hotel erano ovviamente chiusi – garantivano cifre assai misere. Le cameriere ai piani, essendo a part-time, hanno ricevuto tra i 300 e i 400 euro al mese. E pensare che all’Hotel dei Dogi la camera più economica costa 400 euro a notte, la suite 2000.

Il compito immediato dell’intervento nel comparto sarà quello di una riduzione del danno a fronte della tempesta di licenziamenti che si profila. È chiaro però che, nell’attuale situazione, la mera difesa dei singoli posti di lavoro non può che ridursi a una battaglia di retroguardia, peraltro a difesa della monocultura del turismo di massa che già tanti danni ha fatto a Venezia sotto il profilo socio-ambientale. Sarà quindi necessario ampliare l’orizzonte verso meccanismi di sostegno al reddito finanziati da una radicale redistribuzione della ricchezza, articolando il più possibile le lotte sul posto di lavoro con quelle per la giustizia ambientale che a Venezia non sono certo mancate in questi anni. Un orizzonte alternativo alla distopia di un parco tematico che affonda sotto la marea delle disuguaglianze globali – sociali e ambientali.


[1] Nel mondo all’incontrario del cooperativismo italiano, “sotto cooperativa” è diventato nel gergo dei lavoratori sinonimo di “esternalizzato”, anche quando la società in subappalto è de jure un’azienda privata.