Venice Climate Camp 2020 - Crisi climatica, economie, cura. Il report del dibattito

9 / 9 / 2020

Il primo dei tre dibattiti, intitolato “Economie, ecologie e cura” ha inteso leggere questi tre elementi nella cornice della crisi ecologica e ambientale, tenendo il debito inquadramento dell’attuale situazione come una crisi complessiva scatenata da un fattore ambientale.

Al centro della questione oggi vi è sicuramente il conflitto salute/lavoro: come lo leggiamo in questa fase? Come possiamo superarlo? Il reddito universale può essere la via d’uscita da questo punto di vista? Il primo degli interventi è stato un contributo audio inviato da Stefania Barca, che ha esordito con la necessità di cambiare il modo in cui parliamo di economia, liberandoci da una sorta di atteggiamento deferente nei confronti di qualcosa che non capiamo fino in fondo ma che governa le nostre vite. L’economia riflette l’ordine geopolitico mondiale post 1945, in cui la crescita del PIL diventa la misura incontestata del benessere. Usando una definizione di Mark Fisher, quella di “realismo capitalista”, Stefania Barca descrive il pensiero dominante del capitalismo come l’unico regime possibile.

D’altro canto, i limiti ecologici di questa economia politica, già evidenti negli anni ’70, sono stati ormai superati dalla realtà. Anche il discorso ecologista è stato inglobato in un discorso economico complessivo, basato sugli assiomi di sviluppo verde e crescita infinita. Oggi siamo di fronte a una sorta di realismo eco-capitalista, continua Barca, finalizzato a permettere al capitalismo di continuare a generare “benessere” (vale a dire PIL) all’interno della crisi e nonostante i limiti ecologici. All’interno di questo scenario, i limiti sociali dell’economia della crescita, che comportano l’acuirsi delle diseguaglianze sociali, vengono gestiti come mali necessari per alimentare l’economia. Ma le disuguaglianze sociali sono sintomo di un fallimento del mito della crescita, e come tali vanno trattate.

Secondo Barca, la critica e le pratiche alternative non mancano: sono le resistenze al modello economico egemonico. Sono le resistenze ecologiste, femministe, decoloniali e antispeciste, che possono fondare il cardine di un’economia politica alternativa, di un nuovo modo di pensare all’economia che prende atto dell’insostenibilità ecologica e sociale della crescita.

C’è però un “ma”: per liberarci dal sistema occorre avere un piano. Molti pensano che questo possa essere il Green New Deal, ossia un piano per sostenere la crescita, permettere la riconversione ecologia e ridurre le disuguaglianze. Obiettivi, però, non compatibili l’uno con l’altro: la crescita sostenibile è una chimera. Per questo motivo, continua Barca, è necessario risignificare l’occupazione alla luce della cura del comune, delle relazioni di interdipendenza tra forme di vita umana e non umana. Si tratta di un piano che conduce alla piena occupazione e che fonda il benessere sul lavoro sociale piuttosto che sulla crescita del PIL. Perché questo sia possibile e si dia come processo democratico occorre eliminare il ricatto salariale, contribuendo collettivamente alla riconversione in modo da garantire un reddito di cura e un reddito indiretto (accesso ai servizi e ai diritti).

Riconoscere il lavoro di cura come cardine del sistema economico, intessere relazioni di commoning in sostituzione di rapporti estrattivisti, conclude Stefania Barca, è un atto rivoluzionario che dobbiamo avere il coraggio di compiere. Occorre superare la tirannia della crescita e vedere, al di là della contestualità delle lotte, un loro punto di convergenza.

Dopo il primo contributo, la seconda ospite a intervenire è stata Alice Dal Gobbo. A partire dal paradigma della crescita infinita del capitalismo postulato negli anni Settanta e della nuova accumulazione del modello antropogenico, le è stato chiesto un punto di vista sull’attuale crisi e sulle possibili vie d’uscita dei movimenti sociali.

Secondo Alice Dal Gobbo, il nodo della valorizzazione è fondamentale nella valutazione della gestione della crisi nella pandemia. Guardando all’esperienza italiana, il ruolo attribuito alla riproduzione all’interno dei rapporti di potere è stato centrale. Questo l’aspetto, a differenza della produzione formale (fabbriche etc.), è stato immediatamente svalorizzato per costruire un immaginario della sfera della riproduzione/cura come elemento senza valore, da cui si può attingere senza limiti. 

C’è di più, continua Dal Gobbo, l’operazione che sta verificandosi sulla sfera della riproduzione (insieme alla salute, alla sanità e all’ecologia) è quella di una loro immissione nei circuiti della produzione capitalista. Si tratta di un rapporto contraddittorio per le attività del lavoro di cura: proprio quelle sfere che dovrebbero essere dedicate alla rigenerazione della vita, al benessere delle collettività diventano ingranaggi dei processi di valorizzazione che sono alla base della crisi ecologica. Basta guardare all’inadeguatezza del sistema sanitario di fronte alla pandemia. Ricollegandosi alle considerazioni di Stefania Barca, Alice Dal Gobbo ha proseguito analizzando un procedere della sfera della riproduzione al di fuori delle logiche della produzione, entro pratiche che abbiano come fine la vita stessa, il benessere.

In che modo queste potenzialità possono essere sottratte a una loro re-immissione all’interno dei circuiti di produzione per configurarsi come alternative concrete a un’economia fondata sul valore? Da questo punto di vista, conclude Dal Gobbo, occorre ripensare al lavoro come categoria al di fuori dell’economia capitalista e al servizio delle comunità e dei territori.

Proseguendo su questo filone, sulla necessità cioè di un ripensamento del lavoro al di fuori delle logiche capitaliste (e quindi di sfruttamento), con Emanuele Leonardi abbiamo affrontato il tema del conflitto lavoro/salute.

Leonardi ha tenuto a precisare che tale conflitto non nasce assolutamente dalla pandemia, ma origina nel concetto di zona di sacrificio, secondo un meccanismo per cui a ogni fabbrica o attività “green” deve fare da contraltare una zona profondamente inquinata. Un dibattito interessante è quello sulla relazione tra esposizione al rischio e corrispettivo aumento salariale, storicamente inserita in un contesto di società salariale che garantiva una forma di inclusione sociale. Guardando alla situazione attuale, per leggere il tipo di monetazione del rischio che gli imprenditori offrono oggi ai lavoratori può essere interessante guardare a un dibattito pubblico che negli scorsi giorni si è svolto tra Carlo Bonomi e Tito Boeri. Il primo, in una lettera agli enti di Confindustria, sosteneva la necessità di rinnovare i contratti al di fuori dello scambio novecentesco tra salario e orario. Il secondo proponeva invece una remunerazione sulla base dell’esposizione al rischio sanitario, di fatto legittimando un “diritto di infezione”.

Il dibattito quindi su lavoro/salute mantiene oggi una centralità fortissima, ma profondamente diversa da quella che ricopriva negli anni ’70. Leonardi conclude con alcune considerazioni: da un lato la pandemia ha dimostrato di condividere i driver profondi con la crisi climatica (deforestazione e perdita di biodiversità). La società e l’ambiente pagano quindi i costi della crisi senza ricevere alcun beneficio. Dall’altro canto, lo scotto della crisi sanitaria dimostra la vigenza di una questione di classe: non solo il populismo usa i migranti come vettore di contagio, operando in maniera negazionista, ma guardando alle mappe del contagio è possibile vedere come queste si sovrappongano alle mappe dello sfruttamento. Dalla logistica alla filiera alimentare, guardando anche a situazioni elitarie come la Costa Smeralda, emerge che il 95% dei contagi e dei ricoveri colpisce lavoratori e lavoratrici stagionali, sprovvisti/e di dispositivi di protezione individuale, senza accesso ai tampini e sottoposti/e a turni di lavoro massacranti. Alla luce di tutto ciò, conclude Leonardi, la conflittualità di classe e quella climatica sono convergenti.

Il quarto e ultimo intervento è stato quello di Alessandro Runci, sollecitato sul recovery fund. A partire da una lettura della governance della crisi, diversa rispetto a quella della crisi del 2008, le misure europee adottate oggi seguono due linee guida principali: da un lato la non messa in discussione del debito come elemento di relazione tra Stati e tra governati e governanti, dall’altro la transizione ecologica come pilastro della misura. Secondo Alessandro Runci, per leggere le risposte istituzionali la lente dev’essere la stessa del paradigma capitalista in cui sono immerse e dei rapporti di forza che le producono. Stanti le premesse, la battaglia dev’essere una battaglia di prevenzione della risposta della govenance come moltiplicatore delle diseguaglianze, così come è stata la pandemia.

Alcune componenti di movimento hanno letto le misure straordinarie come indizio di una capacità degli Stati di sostenere emergenzialmente una crisi, traendone come conclusione la necessità di applicare un medesimo schema d’azione di fronte alla crisi climatica.

Una posizione, sostiene Runci, che non tiene da conto la sequenzialità degli impatti: la pandemia nell’immaginario ha colpito anzitutto regioni particolarmente ricche del mondo ed esponenti delle élite. Sequenzialità opposta rispetto a quella con cui impatta la crisi climatica. Una questione fondamentale per analizzare le risposte differenziali alla crisi sanitaria e alla crisi ecologica. A ciò si aggiunge un secondo elemento: se anche la pandemia si poteva prevedere, ha di fatto colto di sorpresa, mentre la crisi climatica agisce su una temporalità diversa, che dà tempo al sistema di riorganizzarsi.

Entrando nel merito del recovery fund, l’obiettivo esordisce Runci è di preservare il sistema anche a costo di immettere denaro pubblico all’interno dell’economia, con l’obiettivo però di ripristinare il prima possibile il bussiness as usual. Nel caso della crisi climatica invece la necessità è opposta, vale a dire di immettere un cambiamento permanente, e non di mettere in pausa per poi ricominciare.

Guardando ai meccanismi del capitalismo dei disastri, anche in questa occasione occorre valutare con attenzione non solo quanto viene stanziato, ma chi veicola i fondi e chi ne beneficia. Si tratta di una logica molto simile a quella delle altre crisi, con un’iniezione di denaro nei mercati e in particolare verso le multinazionali, con uno sperato – ma inesistente – meccanismo di sgocciolamento. 

Occorre quindi, aggiunge Runci, aggiornare le premesse e le strategie che avevamo prima della pandemia. La cura è stata trasformata in un ingranaggio capitalistico. Il primo pacchetto della BEI è stato seguito immediatamente da un appello delle ONG a investire nella sanità, senza però che venissero tenute in debito conto le responsabilità della BEI nel tracollo della sanità italiana. Se prima poteva esistere una dialettica tra realisti climatici e il fronte della commissione europea (espressione del tentativo di riconciliare crescita e riconversione ecologica), ora l’unico orizzonte possibile è radicale. L’unica dialettica è il conflitto.