Venice Climate Camp 2020 - Decolonizzare la crisi ecologica. Il report del dibattito

10 / 9 / 2020

Il nuovo saggio di Malcolm Ferdinand “une écologie décoloniale” apre il secondo dibattito targato Venice Climate Camp, moderato da Marco Baravalle, dal titolo “Decolonizzare la crisi ecologica” e che tratta di decolonialità e giustizia climatica.

Il relatore, insieme a Felipe Milanes che parlerà dopo di lui, interviene attraverso un video registrato dal momento che non ha potuto essere fisicamente presente a Venezia.

Ferdinand vede la necessità di tracciare una genealogia non eurocentrica del pensiero ecologista ed ambientalista, unendola a una vera e propria missione politica: sanare una frattura prima di tutto epistemica fra l’ecologia politica e il pensiero post o decoloniale.

A cosa è dovuta tale frattura? Secondo Ferdinand, al fatto che il pensiero ambientalista spesso sottovaluta il peso della vicenda coloniale e allo stesso tempo i movimenti politici antirazzisti e anticoloniali non mettono in luce la centralità del dato ecologico.

Le soggettività subalterne “negre” sono sottovalutate nella loro capacità di praticare modalità di abitare il mondo non estrattive, quando nel frattempo i coloni imponevano un sistema di produttivo violento come quello delle piantagioni.

La genealogia alternativa per Ferdinand parte proprio dai Caraibi e dai “maroons”, gli schiavi che nel XV secolo fuggivano dall’oppressione occidentale.

Ed è anche da qui che la storia della crisi climatica deve partire, ancora una volta oltreoceano e non in Europa. Per analizzarla in maniera decoloniale occorre scardinare, prima di tutto, il pensiero occidentale e bianco di Rousseau o di Thoreau, teorizzando un unico concetto di “natura” che rappresenta un piccolissimo pezzo di mondo.

In conclusione, Malcolm Ferdinand contrappone il termine “Negrocene” all’“Antropocene” per esprimere l’idea che l’uomo bianco abbia sfruttato l’ambiente, la terra e le sue risorse esattamente come ha sfruttato gli schiavi negri.

Parlando di colonialismo ai tempi del Covid, Felipe Milanes dall’Università di Bahia in Brasile racconta cosa vuol dire vivere una pandemia nelle Amazzoni, fra le popolazioni indigene.

Per Milanes, il termine colonialismo è riduttivo della situazione in Sud America, dove le popolazioni indigene sono costrette a subire ancora dinamiche di conquista violenta e di oppressione, a causa delle politiche di Bolsonaro e delle grandi multinazionali appoggiate da parte della popolazione locale.

Il paragone con i minatori venuti dal Nord del mondo in cerca d’oro che nel XV secolo portavano virus e malattie che uccidevano i locali balza subito all’occhio. In Amazzonia, oggi, la pandemia da Covid 19 ha conseguenze molto più violente che nel nord globale.

Ciò che Milanes afferma è che “le persone non vengono uccise dal coronavirus, ma attraverso di esso”:  la politica di Bolsonaro utilizza il virus come strumento di genocidio.  

Per decolonizzare un’economia o una crisi occorre prima di tutto decolonizzare il sè, per evitare di circoscrivere la questione oltreoceano e non renderla praticabile. Ed è sul nord globale che, infatti, tratta la seconda parte del dibattito.  

Maura Benegiamo parla di economie di sussistenza decoloniali, e in che modo possono essere inserite all’interno del contesto europeo e italiano.

Analizza la crisi ecologica attraverso una lotta intersezionale. “chi pensa che prima vada risolto il problema della classe, poi quello della razza e infine il problema del genere sbaglia”, perchè questo assunto non corrisponde alla realtà.

Ultimo a prendere parola è Salvo Torre dell’Università di Catania, che cerca di dare una prospettiva più territoriale al dibattito, seppur aprendo al dibattito con un'affermazione che non lascia scampo ad ulteriori interpretazioni: "Gli effetti della crisi climatica permangono come lascito del colonialismo".

Il secondo livello è legato al primo: il margine si estende, l’esclusione dal margine diventa stabile e il margine si ripropone anche nelle vecchie aree forti. La dinamica è interna all’area coloniale: all’interno di questa non si ha il diritto di esprimersi su salute, ambiente e gestione del territorio. Conflitto sanato solo con la repressione! Questa ciclicità è propria del colonialismo e noi la stiamo vivendo dagli ultimi 40 anni.

Torna sempre il motivo della povertà, che emergenza dopo emergenza e crisi dopo crisi farà sì che una quota sempre maggiore di persone si troveranno al di sotto della soglia di povertà, e ci resterà in maniera stabile.

Il metodo, riguarda le possibilità di alternativa. Decolonizzare non significa solo decolonizzare il maschio bianco cristiano come riferimento della razionalità a cui è stata attribuita la proprietà del pianeta ma significa ragionare delle pratiche plurali!

Infatti, l'innovazione arriva sempre dal margine, soprattutto quella politica. I grandi momenti di trasformazione, di idee e pratiche provenivano dal margine, da tutte le aree in cui l’esclusione aveva prodotto la necessità di ribaltare e ricostruire tutto daccapo.

Le pratiche ci sono, aprono una strada dentro cui siamo già. Esclusione dal margine significa necessità di trovare alternative comuni e collettive. Si declinano in economie popolari ricostruire nelle situazioni marginali come basi di società non capitalista, nelle forme sperimentate negli anni in cui la crisi ha devastato le aree più povere.

C’è bisogno di ridiscutere le trasformazioni delle soggettività e includere nei nostri metodi queste esperienze nuove.

Bisogna partire dall’individuazione delle contraddizioni interne del sistema. Quella coloniale, è una contraddizione che va scardinata; motivo per cui serve sviluppate la capacità di costruire nuove forme e nuovi spazi attraverso la conflittualità.

Esigenza materiale di costruire spazi autonomi che agiscano all’interno del sistema contraddittorio. Utopico, si, ma siamo già in grado di pensare modelli alternativi: modelli destinati a scomparire dalla crisi di quell’attore che dentro la colonia era il riferimento di tutto, cioè lo stato nazione.

Solo quello spazio potrà immaginare nuove forme di salute collettiva, di approvvigionamento alimentare,

Uscire dal modello coloniale significa smantellarlo completamente e immaginare una società diversa che segua i principi che siano l’opposto del sistema in cui viviamo.

Tanti sono stati gli argomenti toccati durante questo secondo dibattito targato Venice Climate Camp: la dannosa frattura fra ecologia e decolonialità, le radici coloniali che animano il nostro presente, che si traducono nel processo di svalutazione delle persone attraverso la valorizzazione del sistema capitalista ed estrattivo. Modello che può e deve essere messo in discussione attraverso delle pratiche di mutualismo che abbiano un preciso fine politico, e che alcune realtà hanno messo in campo nella storia e lo fanno tuttora.

Ma forse, ciò che è emerso maggiormente è l’idea di un margine conflittuale che deve essere abbracciata perché il margine si allarga e lo fa anche a casa nostra.  

Ed è all’interno di questa cornice che il Venice Climate Camp rappresenta una perfetta metafora: l’anno scorso ci trovavamo al Lido di Venezia, al margine fisico di una città unica ma devastata dal Mose e dall’acqua granda, che ci parla dell’urgenza di porre fine al cambiamento climatico; quest’anno invece siamo al margine industriale di Porto Marghera, una realtà che ha pagato con un prezzo altissimo – anche in termine di vite umane – il cambiamento climatico e le politiche industriali nocive che si sono susseguite negli anno. E’ popolando il margine di una città che lo si rende conflittuale, lo si fa uscire per dialogare con il resto d’Italia, l’Europa e il mondo.

E con questo spirito ci avviciniamo al Venice Climate Meeting di sabato.