Il collaboratore di Globalproject.info Tommaso Baldo ha fatto parte della delegazione di Fondazione Museo storico del Trentino e Docenti Senza Frontiere che, in collaborazione con UIKI (Ufficio Informazione del Kurdistan in Italia), si è recata a Kobane tra il 13 ed il 20 giugno per monitorare la costruzione di "l'arcobaleno di Alan", uno spazio abitativo e didattico destinato agli orfani della città e finanziato dalla Provincia Autonoma di Trento. In questo articolo alcune riflessioni e scorci di vita quotidiana scaturiti da questa esperienza.
In una stanza della guest
house di Kobane un uomo mi racconta della città da cui è dovuto andarsene,
Afrin.
«Non mettere il mio nome. La mia famiglia, i miei genitori e fratelli, sono
ancora là. Gli islamisti e i turchi arrestano tutti coloro che sostengono
l'autonomia democratica del Rojava e i loro parenti, li torturano e li uccidono».
Le notizie degli omicidi, degli stupri e delle torture escono dalla sua bocca
una dopo l'altra. Un elenco dell'orrore che sembra non finire mai.
«I jhiadisti hanno costretto una ragazzina di dodici anni a sposare uno di loro».
«Gli abitanti dei villaggi yezidi di Arsh Kabor, Fakyr e Fatyran sono stati
convertiti a forza all'Islam».
«Il sito archeologico di Andare è stato bombardato e poi distrutto».
«Nel villaggio di Arin Mirkan hanno bruciato gli ulivi per cacciare i contadini».
«A Shara hanno cacciato molta gente per far posto agli islamisti e alle loro
famiglie venute dalla Ghouta».
Annuisco. La "pulizia" etnico-religiosa è in corso ovunque in Siria
tranne che in Rojava, un'isola di convivenza in un mare di barbarie incrociate.
Assad uccide o caccia gli arabi sunniti sostenitori dei ribelli, gli islamisti
cacciano o uccidono curdi, cristiani, yiezidi o sciiti. La gente di Afrin, come
quella di tutto il Rojava, aveva accolto centinaia di migliaia di profughi
senza chiedere loro di che religione o etnia fossero. Ora i carri armati e le
bombe di Erdogan hanno costretto alla fuga circa la metà di quanti si trovavano
nella zona, profughi o autoctoni che fossero. Sono più di 300.000 gli sfollati
di Afrin nelle tendopoli della regione di Sheba.
Al loro posto gli islamisti siriani al soldo di Erdogan insediano famiglie
provenienti da Ghouta, in fuga da Assad perché parenti degli islamisti o
semplicemente perché non volevano morire sotto i bombardamenti.
«Non tutti sono islamisti» dice il mio testimone. «Molti vorrebbero tornarsene
a Ghouta ma i soldati turchi li tengono ad Afrin con la forza».
Per chi si trova ad Afrin la vita è identica a quella provata dagli abitanti di
Raqqa sotto l'Isis. Le donne sono il principale bersaglio dell'occupazione
turca e jihadista. Donne come quelle che a Kobane vedo fare le insegnanti, le
amministratrici, le comandanti militari o le organizzatrici delle comuni e
delle associazioni. Donne che sono il motore di questa rivoluzione e che per
Erdogan, e per quelli che l'occidente chiama "ribelli moderati" (in
realtà ex membri dell'isis), sono "infedeli" da punire.
«A Shie il 13 giugno hanno picchiato le donne che protestavano contro l'obbligo
di portare il burqua. Le prendono e
le bastonano sotto la pianta dei piedi».
La falaka, una pratica comune nelle
galere turche ai tempi del regime militare degli anni '80 che Erdogan ha
riportato in auge.
«Nel villaggio di Kukhan tutte le donne sono state riunite in una casa e gli
uomini in un altra vicina. Le hanno violentate mentre i loro padri, fratelli e
mariti erano costretti a sentire le loro urla».
Io ascolto e vorrei potermi illudere che questa sia, almeno in parte,
propaganda curda. Ma l'uomo che mi parla dice "mio fratello",
"la mia città". No, non è propaganda.
Ciò che dice è identico a quanto mi ha già raccontato un profugo cristiano di
Afrin, che a differenza del mio testimone non faceva parte del movimento
rivoluzionario. La colpa di essere cristiani è più che sufficiente per morire
ad Afrin sotto l'occupazione turca.
«Hanno sterminato intere famiglie, anche i bambini. Ci rubano tutto e
distruggono le chiese. Tutti i cristiani han dovuto fuggire. Io sono qui a
Kobane ma molti sono nei campi profughi a Sheba». No, non è propaganda.
Incontro anche i feriti della battaglia di Afrin, combattenti Ypg e Ypj, cioè
ragazzini che in Italia sarebbero tra i banchi delle superiori. Per due mesi in
un territorio appena collinare, che sarà la metà di una media provincia italiana,
hanno fermato gli aerei e i carri armati del secondo esercito NATO con i loro
vecchi Khalasnikov e con i loro corpi, coprendo la fuga di centinaia di
migliaia di civili. Altri ragazzi e ragazze come loro in questo momento
continuano la guerriglia dietro le linee nemiche. Gli invasori non possono
dormire sonni tranquilli ad Afrin.
Qualcuno dei feriti che ho davanti zoppica, qualcuno ha un braccio fasciato. Ad
una ragazza piccola e sorridente mancano una mano e un piede. No, non è
propaganda.
Ci chiedono di raccontare in Europa quello che accade qui. Dicono che loro
combattono per tutti i popoli e per tutti gli oppressi. Che tutti i
popoli dovrebbero aiutarli. Ci dicono di fare di più perché questo accada.
E io vorrei davvero sapere come fare per far sentire all'Italia e all'Europa
intera la vergogna che provo io ora, la vergogna di non fare mai abbastanza, di
non essere in grado di restituire a questa gente anche solo una piccola parte
di ciò che loro hanno dato all'umanità intera affrontando il volto peggiore
della barbarie del nostro tempo.