Algeria: Cosa succede?

4 / 3 / 2019

Da qualche giorno la domanda “Cosa succede in Algeria?” mi arriva da tutte le parti. Sono ormai anni che la stampa italiana si era dimenticata persino della esistenza di un paese (il decimo al mondo per superficie) chiamato Algeria. Di colpo si svegliano, tutti parlano di Algeria. Ma non essendoci una continuazione narrativa di tutto quello che è successo negli ultimi anni, la narrazione è per forza superficiale, talvolta succube della narrazione – spesso tendenziosa e deformata – dei media francesi.

Cosa succede in Algeria? Perché adesso, dopo tutti questi anni di silenzio? Chi è quella gente uscita per le strade? Cosa vuole? Cosa può succedere adesso? Queste sono più o meno le domande che mi sono state poste e alle quali tenterò di rispondere qui.

Cosa succede in Algeria?

In Algeria c’è una protesta su larghissima scala, per una volta non solo ad Algeri ma quasi in tutti i capoluoghi di provincia. Una protesta popolare, trasversale e pacifica per l’annullamento della candidatura del Presidente Abdelaziz Bouteflika al quinto mandato alla testa della Repubblica algerina.

La protesta lanciata via internet e social media da fonti sconosciute è sostenuta e co-organizzata sia da anonimi cittadini, sia da movimenti della società civile, sia da partiti e organizzazioni politiche. Ma sembra, se non sostenuta, almeno guardata favorevolmente da una buona parte del complesso sistema politico-economico-militare al potere in Algeria.

Perché adesso, dopo tutti questi anni di silenzio?

In realtà, l’Algeria non è mai stata e mai sarà un paese “tranquillo”. Le proteste, le sommosse, le contestazioni anche violente del potere vigente e dei suoi rappresentanti regionali e locali fanno parte della vita quotidiana in Algeria sin dai primi anni dell’indipendenza, ottenuta nel 1962 dopo sette anni di una guerra terribile che ha portato via centinaia di migliaia di persone.

Lotte per i diritti economici, per i diritti culturali delle popolazioni amazigh, lotte sindacali, per la casa, per il lavoro e il redditoLa scena politica e sociale algerina è sempre stata una delle più calde nel sud del Mediterraneo.

Quello che gli altri paesi dell’area sud del Mediterraneo vivono nel 2011, l’Algeria lo vive già nel 1988. Il 5 ottobre 1988 il paese si solleva e mette fine al sistema del partito unico.

Segue una stagione straordinaria di libertà e pluralità culturale e politica. Ma il sogno finisce in un incubo che inizia con il colpo di stato che annulla le elezioni vinte al primo turno dal Fronte islamico della salvezza (Fis). Il paese vive una terribile guerra civile per quasi quindici anni.

Nel 1999, arrivano i primi accordi per mettere fine al conflitto armato e con essi arriva Abdelaziz Bouteflika (sul personaggio leggere l’articolo scritto nel 2005 per Peace Reporter). Si impone sia agli islamisti che ai generali dell’esercito come garante degli accordi di pace che prevedono la fine dei conflitti, nessuna inchiesta e nessun processo per i numerosi crimini contro l’umanità commessi dai due campi, in cambio del rientro delle multinazionali nello sfruttamento degli enormi giacimenti di petrolio e gas del paese.

Dopo questa intronizzazione un po’ forzata, l’uomo ha saputo manovrare molto bene. Non è stato una marionetta qualsiasi e ha giocato così abilmente che, da outsider dei clan al potere, ha creato un suo clan fatto di familiari (fratello in primo piano), parenti, amici, complici di vita e di politica… Ed è riuscito a mettere in panchina tutti gli altri. Aiutato dagli aumenti spettacolari dei prezzi del greggio negli anni del suo primo e secondo mandato, è riuscito anche a eliminare ogni forma di opposizione giocando semplicemente con i petrodollari. Così ha potuto mandare in pensione i potentissimi generali degli anni novanta e ha avuto la forza per cambiare la costituzione e fare, invece di due, ben quattro mandati.

Il problema è che nel 2013, poco prima di ripresentarsi per il quarto mandato, si è ammalato. È stato colpito da un ictus che negli anni, nonostante le costosissime cure negli ospedali francesi e le cliniche svizzere, è andato peggiorando. Oggi non è nemmeno più in grado di intendere e volere.

L’altro grande problema è la caduta libera del prezzo del petrolio. Il ritmo di consumi è calcolato su un prezzo del petrolio a più di $110 al barile, ma i prezzi sono crollati dopo le “Primavere arabe” a volte anche sotto i $30 e comunque non superano i $75-80 da anni. L’economia algerina è ancora fortemente dipendente dalle esportazioni di idrocarburi e il potere di Bouteflika è anch’esso dipendente dalla redistribuzione della manna petroliera. Con il crollo delle entrate, crollano anche gli equilibri politici costruiti negli anni successivi alla guerra civile, fatti di generose concessioni salariali e sociali, un massiccio programma di edilizia pubblica e importanti benefici garantiti ai signori della politica e della guerra.

È chiaro che il paese ha bisogno di una svolta politica. Ma nel clan presidenziale, detto “Clan di Nedroma” – dal nome della piccola cittadina sul confine ovest dal quale è originario il presidente e la maggioranza dei baroni del potere attuale (ministri, governatori di province, ex-capo della polizia, personaggi chiave del ministero dell’energia…) – non c’è nessuno che abbia lo stesso calibro politico. Nemmeno il fratello, Said. Sono tutti parassiti politici che vivono finché vive lui. Se cade, cadono tutti e rischiano anche di farsi male, perché hanno veramente saccheggiato il paese. Ma più vedono avvicinarsi la loro fine e più diventano voraci. E più l’opinione pubblica e i clan rivali si caricano di rabbia e rancore nei loro confronti. Tuttavia, nell’illusione di mantenersi ancora al potere all’ombra di una quercia ormai crollata, hanno osato candidare un Bouteflika moribondo a un quinto mandato. Hanno fatto campagna elettorale con il suo ritratto ufficiale come fosse un’icona bizantina. L’hanno fatto nonostante petizioni, appelli e dichiarazioni sia da parte della società civile sia da parte di molti esponenti politici interni ed esterni al sistema.

È per questo sentimento di rabbia di fronte a una situazione che mescola prepotenza e ridicolo che la gente ha cominciato a mobilitarsi via internet, per poi uscire tutti insieme nelle piazze di quasi tutto il paese.

Chi è quella gente uscita per le strade?

La gente uscita per le strade di Algeri e delle province del paese il 22 febbraio e i giorni successivi è di tutte le età, tutte le estrazioni culturali, sociali ed economiche. Arabofoni, Amazigh, islamisti, laici, nazionalisti, modernisti… Di tutto. Gli appelli sono giunti da varie parti, sui social media, sui siti dell’opposizione.

Alcuni attivisti noti, personaggi famosi sui social media, facebooker e youtuber, nonché certe personalità interessate a candidarsi alla carica suprema, ci hanno messo la faccia, pagine facebook, conti twitter… Ci sono gruppi politici, associazioni e sindacati. Ognuno con le proprie idee, ma tutti raccolti intorno a un solo slogan: “No al quinto mandato, Bouteflika deve andare via!”.

Alcuni accusano Bouteflika e il suo clan di tutti i mali di cui soffre il paese. Altri si accontentano di sottolineare il suo stato di salute e chiedono al suo entourage di liberarlo e di non tenere in ostaggio un uomo stanco e malato.

Tuttavia, l’attitudine “tranquilla” delle forze dell’ordine – ci sono stati arresti e qualche intervento in piazza ma niente rispetto alle manifestazioni degli ultimi vent’anni – e la copertura favorevole da parte di alcuni media privati lasciano supporre una benevolenza di varie parti del sistema. Il potente capo dello Stato Maggiore, il Generale-Maggiore Gaid Salah, si è espresso in sostegno a Bouteflika. Ma sembra solo una presa di posizione volta rassicurare sul fatto che ciò che succede non è la premessa di un colpo di stato.

Cosa vuole questa gente?

Come successo nelle altre proteste della primavera araba, oltre al “dégage!” chiaro e netto rivolto al potente di turno, non ci sono proposte precise, nessun progetto di società comune, nessun programma. Solo un trasversale e forte sentimento di misura colma. Barakat! Basta!

Cosa può succedere adesso?

Il 3 marzo si chiudono le iscrizioni per le candidature [la candidatura di Bouteflika è stata effettivamente depositata il 3 marzo]. Finora, pochi candidati hanno depositato il dossier. Quelli più seri chiedono il ritiro di Bouteflika come condizione per la loro partecipazione. Il 13 marzo, il Consiglio Costituzionale annuncerà le candidature ritenute valide.

Il clan presidenziale e gli altri clan del sistema algerino hanno pochi giorni per trovare un’uscita dignitosa da questo marasma. Bouteflika è attualmente in degenza in una clinica svizzera. Potrebbero annunciare che il suo stato di salute si è degradato ulteriormente, trovare un modo accettabile per ritirare la sua candidatura e mettersi al tavolo del negoziato per trovare un nuovo uomo in grado di mantenere gli equilibri. Un nuovo garante della persistenza del sistema. È poco probabile ma, se fossero veramente saggi, potrebbero persino aprire un dialogo nazionale per una nuova via verso una soluzione democratica e pacifica. Ma se non si trova una soluzione ragionevole, se l’entourage del presidente persevera nella sua follia, allora tutto può succedere: quinto mandato che getterà il paese in una profonda depressione, colpo di stato dei militari, inizio delle violenze in piazza con scenari che conosciamo e che abbiamo visto all’opera in altri paesi…

Riconciliarsi dopo aver visto e vissuto forti ingiustizie è spesso difficile, ma l’Algeria ha i mezzi e le capacità per riprendersi e vivere in pace. L’unica speranza è che ci sia anche abbastanza buon senso per non seguire la facile ma distruttiva via della violenza.

Pubblicato originalmente su karimmetref.wordpress.com