Altro che crisi del dollaro: l'economia politica della sollevazione libanese (pt. 1)

6 / 11 / 2019

Killoun ya3ni Killoun

Da ormai quasi tre settimane, una sollevazione popolare senza precedenti per ampiezza, trasversalità e composizione sociale sta scuotendo il Libano alle – e dalle – fondamenta. Dalle fondamenta, perché a chiedere con fermezza la 'caduta del sistema' sono innanzitutto quelle compagini sociali (semi-proletariato urbano e rurale, disoccupati/e e sotto-occupati/e, piccola e media borghesia impoverita) e quelle regioni periferiche (Sud, Beqa'a, Distretto di Tripoli, 'Akkar) e semi-periferiche (Aley, Chouf, Kesrawan, Metn) che dalla fine della Guerra Civile (1975-1990) hanno rappresentato i pilastri portanti del consenso delle forze confessionali al potere – e dunque della riproduzione del 'sistema' stesso. Alle fondamenta, perché quello che le piazze da Nord a Sud stanno esprimendo al grido di “Killoun ya3ni Killoun” (“Tutti vuol dire tutti”) è innanzitutto un'incrinatura profonda e trasversale del contratto sociale che ha finora legato quegli stessi leader alle rispettive costituenti.

La cronaca è ormai nota. Giovedì 17 Ottobre, a margine delle discussioni sulla finanziaria 2020, il governo Libanese annuncia un pacchetto di misure di austerity che, tra le varie misure, propone l'introduzione di una nuova tassa sull'utilizzo delle app di messaggistica istantanea (WhatsApp, Messenger, et sim.), preconizzando altresì un possibile aumento dell'IVA del 4%. Subito dopo l'annuncio, gruppi di cittadini iniziano a riversarsi spontaneamente in strada in segno di protesta, raggiungendo in brevissimo tempo l'ordine delle migliaia. Circa due ore dopo, il governo annuncia il ritiro delle misure. Ma è troppo poco, e troppo tardi: i primi copertoni sono già in fiamme, il centro di Beirut è già bloccato, la gente non smette di affluire – soprattutto, stavolta la gente non ha intenzione di tornare a casa.

Lo slogan “ash-Sha3b Yourid Isqat en-Nizam” (“Il popolo vuole la caduta del sistema”), che sta accompagnando la rivolta da ormai venti giorni, era tornato a farsi sentire prepotente nelle piazze libanesi già lo scorso 29 settembre, quando una partecipata giornata di mobilitazione contro il deterioramento delle condizioni economiche del paese si era conclusa con scontri e blocchi stradali diffusi in tutta la capitale. Nel corso della giornata avevano fatto capolino anche molte delle questioni destinate a diventare da lì a poco i grandi leitmotiv della Thawrah, la rivoluzione, come viene definita da chi in questi giorni sta occupando strade e piazze: la corruzione generalizzata, le responsabilità congiunte (Killoun ya3ni Killoun) delle maggiori forze politiche alla crisi, la richiesta di dimissioni in blocco del governo, la fine del sistema confessionale.

La manifestazione del 29 settembre era stata innescata dall'accelerazione repentina che la crisi del sistema a doppia valuta a cambio fisso Dollaro-Lira Libanese (LL), in vigore dalla fine degli anni Novanta, ha subito alla metà del mese.

Dal 2011, l'influsso massiccio di dollari dai quali dipende la stabilità del sistema monetario libanese ha conosciuto un decremento sostanziale. Questo ha portato a una riduzione delle riserve di dollari nelle banche commerciali e nella banca centrale al disotto della soglia necessaria a coprire la domanda per le spese correnti (in Libano si effettuano e ricevono pagamenti in entrambe le valute per tutti i tipi di beni e servizi, dagli affitti e gli stipendi, alla frutta sulle bancarelle dei mercati), e soprattutto, i costi delle importazioni, che in Libano interessano, tra i vari beni, medicinali, carburanti, e circa l'80% dei generi alimentari necessari a coprire il fabbisogno nazionale.

Il primo grido d'allarme del rischio di un aumento incontrollato dei prezzi lo avevano lanciato il 26 settembre i proprietari delle pompe di benzina, entrati in sciopero perché non più in grado di importare petrolio a tassi di cambio di mercato. Gli avevano fatto eco due giorni dopo i proprietari di mulini industriali, per la stessa ragione rimasti a corto di riserve di farina e impossibilitati ad importarne di nuova.

Il 30 settembre, il direttore della Banca Centrale Riad Salameh ha predisposto un tasso di cambio agevolato a tariffa fissa per le importazioni di carburanti, medicinali e farina. Si tratta tuttavia di una misura-tampone che non è servita né a ristabilizzare la valuta (e dunque a scongiurare il rischio svalutazione), né a evitare la possibilità di un aumento nel breve termine del prezzo del resto dei beni non inclusi nella manovra – e questo i libanesi lo sanno.

La crisi valutaria è solo l'ultimo sintomo dello stato di profonda crisi in cui da almeno otto anni versa il capitalismo libanese. Ed è precisamente in questa crisi che la sollevazione in corso affonda le sue radici. Proviamo a procedere con ordine.

Petrodollari ed economia della rendita

Il Libano vanta uno dei debiti pubblici più alti al mondo, pari a circa il 150% del PIL. Dal 2011, la crescita è ferma intorno all'1% medio annuo, e da altrettanto tempo le forze di governo arrancano nel trovare soluzioni budgetarie che consentano di tenere insieme la necessità economica di ridurre il deficit e scongiurare il rischio di bancarotta, con la necessità politica di tenere insieme una spesa pubblica elevata dentro un sistema fiscale regressivo.

Per capire come e perché si è arrivati a questo punto occorre fare un passo indietro.

Il debito libanese è stato in gran parte accumulato dall'indomani della fine della Guerra Civile (1975-1990), sulla scorta del neoliberismo rentieristico e speculativo che ha accompagnato le politiche di ricostruzione dell'ex Primo Ministro Rafiq Hariri. In carica quasi ininterrottamente dal 1992 al 2004, infatti, Rafiq Hariri aveva impostato il suo programma di ricostruzione (Horizon 2020) sulla combinazione tra maxi-progetti di riqualificazione urbanistica assegnati a grandi holding a capitale pubblico-privato (su tutte Solidere, per la ricostruzione del centro di Beirut, di cui Hariri stesso, nella vita magnate dell'edilizia, delle telecomunicazioni e banchiere, era anche tra gli azionisti privati di maggioranza), e il finanziamento degli stessi principalmente attraverso la vendita massiccia di titoli di stato ad alto rendimento – e dunque di debito – da parte della Banca Centrale. Il programma era stato corroborato dall'implementazione di politiche economiche neoliberiste molto aggressive basate sulla defiscalizzazione e deregolamentazione delle già storicamente deregolamentate attività di intermediazione finanziaria e speculazione edilizia, accompagnate da un massiccio pacchetto di privatizzazioni.

Come sottolineato da Hannes Baumann, il fine ultimo delle politiche di Hariri era quello di favorire il consolidamento di un ambiente economico che fosse in grado di attrarre velocemente grandi volumi di capitali stranieri tramite i quali drenare l'espansione delle attività finanziarie e immobiliari. Tuttavia, le stesse politiche hanno giocato un ruolo fondamentale per la strutturalizzazione di uno schema dominante per le attività economiche il cui risultato finale è stata la rentierizzazione rapida e totalizzante dell'economia libanese.

Grazie all'ecosistema favorevole alla creazione di rendita speculativa messo in piedi dalle politiche economiche degli anni Novanta e Duemila, la maggior parte degli investimenti privati si è concentrata nei settori bancario ed edilizio, a scapito innanzitutto delle attività produttive. A fare da push factor al settore bancario sono stati soprattutto i tassi di interesse particolarmente vantaggiosi offerti ai correntisti delle banche commerciali, a loro volta garantiti dalle altissime rendite derivate dall'acquisto massiccio di titoli di stato. Ugualmente, a trainare il mercato immobiliare sono stati soprattutto gli investimenti in maxi-progetti di edilizia di lusso, riusciti a proliferare come funghi anche dopo la ricostruzione grazie all'ulteriore deregolamentazione del settore nel 2004. In entrambi i casi, a drenare la loro crescita sono stati soprattutto i capitali della diaspora e gli investimenti stranieri diretti (FDI), con la parte del leone giocata dai paesi del Golfo. Ancora nel 2015, il 76% dei FDI nell'economia libanese (di cui la metà investita in real estate) è provenuto dalle petromonarchie. Dal Golfo provengono anche il 60% delle rimesse dei libanesi della diaspora, che nel loro complesso dalla fine della guerra hanno garantito al Libano in media circa il 20% del suo PIL annuo.

Tra sottoccupazione e assenza di welfare

Le rimesse della diaspora giocano un ruolo fondamentale anche nel tamponare gli effetti delle profonde disuguaglianze sociali che il consolidamento di questo sistema economico ha determinato. Se, infatti, la rentierizzazione ha garantito al paese fino al 2011 una crescita media del PIL annua del 4,6% (+622% totale), lo stesso sistema ha contribuito innanzitutto a creare un mercato del lavoro strutturalmente incapace di produrre una gamma di posti di lavoro abbastanza larga e dinamica da garantire l'assorbimento stabile e qualificato della forza lavoro. Per di più, buona parte del lavoro prodotto resta lavoro povero, sia in termini di produttività che, soprattutto, di redditi.

Secondo un rapporto dell'ILO del 2015, se i disoccupati stimati sono circa il 9% degli attivi, la disoccupazione giovanile è di almeno il 36%, di cui il 77% costituito da laureati, e almeno il 50% degli attivi lavora informalmente. Lo stesso rapporto sottolinea come gran parte dei lavoratori formali nel settore privato guadagni in media poco più 600$ al mese (che a Beirut sono a malapena sufficienti a coprire il costo dell'affitto di un bilocale in un quartiere periferico), mentre quelli dei lavoratori informali si aggirano intorno ai 400$, ovvero 50$ in meno al mese del già irrisorio salario minimo legale.

Gli immensi profitti generati dalle speculazioni sul debito e sulla ricostruzione si sono invece concentrati nelle mani di una ristrettissima oligarchia di banchieri, broker e immobiliaristi nelle cui mani si concentra quasi la metà della ricchezza privata del paese. Secondo stime del 2013, lo 0.3% dei cittadini adulti più ricchi detiene da solo il 48% della ricchezza privata nazionale. Di contro il 50% dei libanesi che occupa la metà più bassa ne detiene insieme solamente il 10%, e almeno il 30% vive al di sotto della soglia di povertà.

I profitti generati dalla rendita speculativa degli ultimi anni, d'altronde, sono stati enormi. Guardando al solo settore bancario, nel 2017 il patrimonio delle principali 14 banche commerciali ha totalizzato quota 233 miliardi di dollari, equivalenti al 350% del PIL nazionale, di cui il 42% nelle mani delle prime tre (Bank Audi, BLOM Bank, Byblos Bank). Nel 2008, il patrimonio totale di tutte e 53 le banche commerciali del paese era di meno della metà.

Gli effetti sociali delle disuguaglianze vengono ulteriormente inaspriti dalla carenza strutturale di servizi pubblici. In Libano, solo il 12% dei posti letto ospedalieri disponibili è garantito dal servizio sanitario nazionale, e solo il 46% dei cittadini (principalmente lavoratori salariati formali stabili e qualificati e professionisti) possiede un'assicurazione sanitaria in grado di garantire l'accesso a strutture private a prezzi agevolati. Allo stesso modo, le scuole pubbliche sono solo il 45%, con percentuali decrescenti man mano che si sale di grado di istruzione, e garantiscono un'istruzione accessibile solo a circa un terzo degli studenti.

Deficit consistenti interessano anche l'approvvigionamento idrico ed energetico. Dalla fine della guerra civile, la compagnia elettrica libanese (EDL) riesce a soddisfare soltanto il 60% del fabbisogno energetico nazionale. Questo comporta tagli programmati giornalieri che vanno dalle 3-6 ore nell'area metropolitana di Beirut alle 12 ore nel resto del paese, rendendo i cittadini strutturalmente dipendenti dal ricorso a generatori privati interamente a loro carico. Ugualmente, sebbene la quasi totalità delle abitazioni sia allacciata alla rete idrica, solo un quarto di esse riceve acqua giornalmente.

Questa carenza di servizi di base può suonare quantomeno paradossale se si considera che le politiche economiche del dopoguerra, nonostante l'impeto neoliberista che le ha animate, hanno coinciso con un aumento esponenziale del volume di spesa pubblica (+ 750% circa dal 1992 al 2017, sebbene nello stesso periodo la percentuale rispetto al PIL sia calata del 12%). Il paradosso, tuttavia, è solo apparente. Come si vedrà nella continuazione di questo articolo, infatti, tale impennata della spesa pubblica risponde all’economia politica del confessionalismo, ristrutturatasi con la fine della lunga guerra civile libanese.