"American First", la nuova strategia Usa in Medio Oriente

A qualche settimana dalle elezioni statunitensi, il rapporto tra il neo eletto Trump e Putin non è ancora del tutto chiaro, e intanto la Russia continua a raccogliere consenso

5 / 12 / 2016

“E ora cosa succede?” è la domanda genericamente più frequente quando un nuovo presidente viene eletto negli Stati Uniti, soprattutto perché le recenti decisioni degli ultimi presidenti americani hanno portato, in Medio Oriente, dolori e lutti rispetto ai benefici paventati. 

Da una prima analisi - dopo qualche settimana dal risultato elettorale americano - il Medio Oriente di Donald Trump sarà molto simile al Medio Oriente che Hillary Clinton aveva immaginato nella sua campagna elettorale: supporto incondizionato per Israele (“l’unica democrazia in Medio Oriente”); costante uso e abuso dei termini terrore e terrorismo e supporto politico e materiale alla galassia dei “moderati”, siano essi ribelli come le Fsa siriane, presidenti o monarchi come Al-Sisi in Egitto o Abdullah in Giordania. Infine, gli amici sacri ovvero i sauditi.

Le politiche di armamento e i contratti commerciali già stilati verrano rispettati e, presumibilmente, ampliati. Questi arsenali di armi, carri armati e bombardieri, serviranno per reprimere qualsiasi tipo di dissenso interno nei paesi amici, senza che nessun cittadino o politico americano abbia qualcosa da ridire. Donald Trump visiterà questi polverose monarchie e garantirà tra strette di mano e favori che il sostegno americano rimarrà invariato. Parlerà di terrorismo e di come arginare questo fenomeno; parlerà di Isis o di qualsiasi altro nome prenderà questo gruppo. Soprattutto Trump si presenterà, con la tipica retorica americana cara anche a molti politici e giornalisti di casa nostra, come il rappresentante dei buoni: o con me o con i cattivi.

Per capire il pantano in cui gli Stati Uniti si trovano in Medio Oriente e le rovinose scelte politiche e militari degli ultimi anni basterebbero solo tre, pesanti, esempi: Afghanistan, Iraq, Siria. Le campagne di democratizzazione manu militari, cavalli di battaglia delle amministrazioni Usa in politica estera negli ultimi 25 anni, non hanno fatto altro che portare a livelli astronomici i costi umani e materiali, per non parlare del fatto che ad oggi, in quei paesi, non si vedono sventolare molte bandiere americane.

La domanda che sorge spontanea e immediata è: cosa farà Trump quando uno di questi paesi presenterà o si ripresenterà come una minaccia per l’Occidente? Abbandonerà la retorica anti-Islam che ha caratterizzato la sua campagna elettorale per ergersi a salvatore degli oppressi? O più semplicemente chiamerà al telefono il suo amico Vladimir Putin e chiederà a lui consiglio?

Non è un’affermazione campata in aria ma la pura verità perché il vincitore, soprattutto in politica estera e in Medio Oriente in particolare, a livello planetario è Vladimir Putin. Il declino del potere e dell’influenza statunitense nell’area mediorientale, con la conseguente perdita di fiducia della popolazione araba e non verso l’alleato e partner atlantico, ha dato un’autorevolezza senza eguali al leader russo.

In realtà, non è rintracciabile un preciso momento storico di quando è iniziato il declino dell’influenza politica e militare Usa nel teatro mediorientale, ma tale influenza era sicuramente al suo apice quando, nel 1956, il Presidente Eisenhower ordinò a francesi, inglesi ed israeliani di abbandonare il Canale di Suez, in seguito al colpo di coda del colonialismo europeo in quella parte di mondo. 

Ronald Reagan viene ricordato, oltre che per la sua carriera da attore e per i suoi lapsus dovuti all’avanzante Alzheimer, soprattutto per una politica di non interventismo e di totale ritiro delle truppe dall’estero in seguito all’attentato di Beirut nel 1983, costato la vita 241 militari Usa, e alla conseguente paura di dover giustificare all’opinione pubblica altre perdite in uno scenario di guerra lontano dai confini americani.

Anche la presidenza Clinton non è famosa per l’interventismo nelle questioni internazionali (vedasi Bosnia 1992 e assedio di Sarajevo) e nel Medio Oriente in generale. Egli si è soprattutto impegnato a mantenere lo status quo post Desert Storm e parziale invasione dell’Iraq, concentrandosi di più invece sul fronte israelo-palestinese: a Clinton va, infatti, il merito di essere stato parte degli accordi di Oslo del 1993, quando israeliani e palestinesi s’impegnarono nel reciproco riconoscimento.  

La maggior parte dei danni in Medio Oriente la dobbiamo sicuramente alla presidenza di George W. Bush e ai suoi falchi che in breve tempo decisero di attaccare l’Afghanistan, nonostante nessun afgano avesse preso parte agli attentati in suolo americano, invasero l’Iraq con la scusa delle armi di distruzione di massa e vi instaurarono un regime sciita consegnando il paese nelle mani dell’Iran, per buona pace dello storico alleato saudita. Un buon jackpot del cowboy texano!

Barack Obama, con sulle spalle questa pesante eredità, sembra abbia preso sempre delle grosse cantonate ogni qual volta egli abbia preso parole, o messo piede, sul e in Medio Oriente. La stretta di mano all’Islam con il discorso presso l’Università Al-Azhar de Il Cairo, il Nobel per la pace, le “linee rosse” sulla Siria rapidamente scomparse sotto la sabbia: tutto ciò è stato presto dimenticato perché un altro abile presidente lo ha superato a doppia velocità: Vladimir Putin.

Sono, infatti, i bombardieri russi che segnano il passo nel conflitto siriano, sono i “consiglieri” militari russi che guidano in battaglia le truppe siriane fedeli ad Assad, sono i rifornimenti russi che permettono a Teheran e alla Repubblica Islamica dell’Iran di aggirare l’embargo sulle armi imposto dalla comunità internazionale. Soprattutto, in tutti quei paesi dove i diritti umani sono ampiamente calpestati, gli occhi e le orecchie dei dittatori, chiamati presidenti, sono rivolti tutti verso Mosca e verso il Cremlino. Non a caso il generale Al-Sisi invita Putin all’Opera a Il Cairo e non a parlare all’università.

Forse questo è il punto focale. Putin parla poco e cerca poco consenso perché se lo costruisce agendo e, in effetti, non è proprio una persona loquace e in tante situazioni egli assomiglia più a un businessman che ad un politico. Di contrasto, Trump parla, ma una domanda sorge spontanea: ha veramente la capacità e la razionalità nelle scelte di Putin? E’ molto probabile che in un incontro bilaterale sarà Trump ad avere bisogno di tradurre le parole di Putin, non viceversa.

Durante la presidenza Trump sarà molto probabile che arabi e israeliani, così come iraniani e turchi, passeranno molto tempo ad ascoltare quello che arriva da Nord piuttosto che da oltre Atlantico. Questa è chiaramente una conseguenza di quanto inaffidabile si è dimostrata la politica estera americana, paragonabile solo a quella britannica degli anni ’30 e a tutti i disastri che ha comportato.  

La supremazia statunitense nell’area mediorientale è in totale declino anche se molti attori presenti sul campo guardano ancora verso Washington, per ricevere aiuti e supporto politico.

Ora è tutto nelle mani di Trump e della sua amministrazione, e vedremo se si dovrà aspettare l’anno venturo per capire quale sarà la sua strategia all’interno di questo confitto che si sta sempre più allargando a macchia d’olio.