Ancora un recupero in terra mapuche

15 / 2 / 2020

Capita sempre quel momento in cui si passa dalle parole ai fatti, e dare un seguito concreto alle tante esperienze di “recupero” che abbiamo visitato di persona e di cui ci hanno raccontato nelle lunghe serate trascorse al campamento climatico, sotto questo immenso cielo stellato d’Argentina, dove Orione è capovolta e brilla a sud est la Croce del Sud.

Potevamo rifiutarci di aiutare una comunità indigena a recuperare la terra ancestrale sottrattale dai latifondisti? Certo che no! La proposta che Mauro Millan, lonko mapuche e portavoce dell’associazione Once De Octubre (11 ottobre, come dire che loro erano là prima del 12 ottobre quando Colombo scoprì un continente che i popoli originari avevano già scoperto da qualche tempo prima) ha fatto ai carovanieri di Ya Basta Edi Bese era una di quelle che non si possono rifiutare. 

E così siamo partiti da Esquel, carichi di accette, badili, seghe elettriche, teloni e viveri. Sterrati da 4x4, salite che devi scendere con armi e bagagli e spingere l’auto a braccia ed imprechi. E poi guadi di torrenti con l’acqua che arrivava all’abitacolo dell’auto, soste per liberare la “carretera” dai grossi sassi. Meglio ha fatto Marielina, una delle donne della comunità, che è arrivata sul luogo del “recupero”, nell’Alto Rio Corinto, sul suo cavallo. A conti fatti, il “caballo” è sempre la soluzione migliore per questi spazi.

Marielina è una delle tre donne che, con i loro otto bambini, costituiscono questa insolita comunità. Sulle loro spalle, una storia di violenza domestica. Quello che non passa inosservato è il coraggio e la determinazione di queste donne che hanno deciso di formare una comunità tutta al femminile affrontando non solo i rischi e le fatiche di una occupazione ma anche le difficoltà di superare le discriminazioni maciste che esistono anche all’interno delle comunità indigene. “Le donne hanno l’obbligo di fare due rivoluzioni: una contro il capitalismo e l’altra contro il maschilismo che è duro da morire anche nel fronte rivoluzionario”, disse, tempo fa, una donna zapatista. Ma si sa che: “Quando le donne avanzano, nessun uomo può retrocedere” (altro detto zapatista, tanto da restare nel tema). E così ci siamo rimboccati le maniche e per tutto il pomeriggio di martedì e l’intero mercoledì, aiutati anche da un paio di attivisti locali, abbiamo tagliato gli alberi, estirpato le radici e sgomberato le aree in cui sorgeranno le loro case, ponendo i primi picchetti che delimiteranno la pavimentazione. La presenza di internazionali nell’operazione - ci hanno spiegato le donne - è importante perché rappresenta una sorta di garanzia. “Voi ora sapete che siamo qui, e anche i vicini, che non ci amano, sanno che voi che venite da lontano e potete parlare al mondo, sapete che tre donne mapuche sono tornate sulla loro terra e che non se ne andranno più - ci ha detto Tita, la più anziana tra le mujeres -. Quando tornerete troverete le nostre case costruite e le nostre porte aperte”.

L’area non è stata scelta a caso. I mapuche non fanno mai nulla a caso, quando effettuano i loro “recuperi”. “Qui sorgeva una comunità che è stata sgomberata a forza dall’esercito e dalla polizia - ci spiega Mauro, indicando i resti devastati dal tempo e dal vento che scende dalla Cordigliera, di alcune costruzioni in legno - La comunità che viveva qui aveva il diritto di stare su questa terra. Un diritto anche legale in quanto gli era stato riconosciuto dallo Stato. Lo sgombero è stato operato in maniera illegittima e anche il tribunale lo ha riconosciuto, ma solo dopo che la comunità è stata disgregata. Qui viveva una nonna delle tre ragazze. Prima di cedere si è difesa sparando agli invasori con un fucile tenuto assieme dal filo di ferro. Oggi torniamo qui anche per lei”.