«Apocalypse Now»: L’americanismo ed Antonio Gramsci. Un’inattuale attualità

14 / 12 / 2016

La nomina, avvenuta lo scorso 1 dicembre, a capo del Dipartimento della Difesa statunitense del generale James Mattis, soprannominato dai marines mad dog o monk warrior - un militarista, già protagonista degli interventi in Afghanistan ed Iraq, famoso per aver dichiarato che «uccidere i nemici è un piacere ed un divertimento» - non può non farci ricordare il folle colonnello Kurtz nel film cult Apocalipse Now di Coppola.

Un altro «cuore di tenebra» che si aggiunge alla lista degli orrori dell’ americanismo divenuto sistema-mondo. La canzone dei Doors  The End, colonna sonora del film, è un tragico paradigma dell’esistente che, con l’elezione di Donald Trump al vertice del sistema mondiale di sfruttamento imperiale, di asservimento delle moltitudini, di esercizio della violenza e della guerra contro le classi più deboli, ha raggiunto livelli di mostruosa follia nella crisi globale del capitalismo.

Basta scorrere la lista dei Ministri da lui nominati: razzisti, antiabortisti, speculatori finanziari e soprattutto miliardari, tanto da essere considerata la squadra di governo più ricca di sempre e che vale più di 10 miliardi di dollari. I governi del  capitale  sono  questo: denaro, farsa, teatro, tragedia, corruzione, violenza e manipolazione dove svanisce il mito schumpeteriano dell’ «imprenditore creativo» portatore etico di ricchezza generale, benessere e felicità[1]. Come nella favola delle api di Mandeville, all’origine dell’economia politica classica nell’epoca della borghesia imprenditoriale che è proiettata alla conquista del mondo, del mercato mondiale, della globalizzazione, lasciando dietro di sé un cumulo di macerie, di miseria, di oppressione e sofferenza per la maggior parte dell’umanità[2]. Della bella favola esaltatrice dell’operosità e del lavoro rimangono solo le api: la massa del lavoro sociale totalmente asservita, privata di diritti, precarizzata, omologata da un mastodontico apparato, come mai si è visto nella storia, di cattura delle menti e dei corpi.

Non sembri fuori luogo in questo straordinario momento storico, per quanto esso  possa apparire inquietante al “popolo della sinistra”, riprendere in senso rivoluzionario alcune intuizioni gramsciane: la rivoluzione passiva, l’egemonia, il blocco storico-sociale, lo «spirito di scissione». È evidente che in Gramsci c’è una forte esigenza, oltre che dare un timbro creativo ed originale al marxismo dogmatico e sclerotizzato, di innovare il linguaggio del materialismo storico.

Concetto chiave è «la rivoluzione passiva», che Gramsci ricava dagli studi sul “lungo” risorgimento italiano, in particolare da Vincenzo Cuoco[3], e che applica a molte altre situazioni (per esempio il fascismo o l’Americanismo-Fordismo), intendendo con essa una rivoluzione dall’alto delle élites  e delle classi dominanti senza la partecipazione delle masse, imposta per riadeguare i dispositivi «egemonici» di dominio-politico culturale e sfruttamento economico. Così, nel suo tempo, il fordismo-taylorismo distrusse la figura dell’operaio artigiano, ancora dotato del suo bagaglio di conoscenze,  competenze, sapere-potere all’interno del processo lavorativo, per sostituirla con l’operaio massa, legato alle operazioni  parcellizzate  e parziali all’interno della grande fabbrica automatizzata, alla catena di montaggio, espropriato di ogni sapere, di ogni autonomia, per quanto relativa, di ogni umanità. Questa rivoluzione dall’alto trasformò gli uomini in «gorilla ammaestrati» prigionieri di una gabbia d’acciaio ed impose il suo modello a tutto l’occidente.

Così oggi nella «fabbrica sociale diffusa e globalizzata» e nella mastodontica catena delle supply chain, ossia delle filiere che consentono alle aziende di gestire un processo produttivo disarticolato su scala planetaria -come una nuova, mostruosa catena di montaggio informatizzata di merci, macchine e corpi, all’interno della «circolazione produttiva» e del just in time - c’è l’esigenza di ridefinire da parte del capitale le forme di comando ed assoggettamento del lavoro sociale. Una società di schiavi perfetti, divisi ed atomizzati, che accettano supini la loro schiavitù come un ineluttabile destino, come una nuova, gigantesca, fatalistica «gabbia d’acciaio».

Lo spirito di scissione di questa lotta di classe rovesciata attraversa tutto l’Occidente, è strutturale e sistemica, fa definitivamente chiarezza sulle mistificazioni della democrazia rappresentativa, polarizza la società tra il potere di un pugno di ricchissimi oligarchi da una parte e moltitudini sterminate di plebei, divisi e stratificati per linee etniche, razziali, di genere dall’altra. Così come, nelle antiche poleis  greco-romanesi spiegava  la lotta di classe tra patrizi e plebei. Le esigenze di mutamento sostanziale nell’assetto della catena di comando e di organizzazione del consenso nascono ancora una volta dall’alto, negli USA, con l’elezione di McDonald Trump, il presidente plastificato come gli hamburger dell’americanissima catena, ed in tutto l’Occidente: Inghilterra  (Brexit );  Francia, con l’autodistruzione della ”sinistra”; Italia , con i ripetuti tentativi di trasformare la forma di Stato in una repubblica presidenziale di fatto (vedi il recente tentativo di modificare la costituzione, per ora clamorosamente fallito con la vittoria del NO al referendum ed il fallimento del governo  Renzi).

Le rivoluzioni passive, la lotta di classe rovesciata, non sono mai mera restaurazione, bensì  registrano,  sia in forma trasfigurata sia come orribile calco, le trasformazioni molecolari della società, ovvero la stessa produzione di soggettività individuale e collettiva, di consenso e «senso comune». I processi molecolari su cui insiste Gramsci sono il succedersi di spinte di forze in movimento, che provocano una serie ininterrotta di aggregazioni e disgregazioni, scomposizioni e ricomposizioni, in cui conta molto l’individualità, oltre che il collettivo, il particolare, il dettaglio, l’antropologia, la psicologia del singolo, le forme concrete della vita vissuta (come per altri versi, e pur nelle differenze, fanno Benjamin e Foucault): un totale immanentismo storico, incarnato nei cervelli e nei corpi degli individui reali, storicamente determinati. Ed è questa la base di produzione di nuova soggettività, di coscienza collettiva, di «senso comune». E’ la base su cui è possibile innestare un processo di “rivoluzione attiva”, dal basso ed in cui lo spirito di scissione costruisce un nuovo blocco sociale egemonico, ha la forza ed il consenso per costruire ed attualizzare «la città futura»! Non catastrofe o apocalisse, non fatalismo e rassegnazione, non nichilismo e distruzione senza progetto, dunque, ma volontà di potenza affermativa nella costruzione del comune.



[1] Si veda a questo proposito la recente pubblicazione J.A. Schumpeter, Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico. Due capitoli dalla Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung (1911), Il Mulino, Bologna 2011, che riprende uno dei testi fondamentali dell’economista austriaco.

[2] J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, ETAS, Milano 2001. Traduzione di Capitalism, Socialism and Democracy, George Allen & Unwin, Londra 1954.

[3] I testi di riferimento sono: A. Gramsci, Quaderni dal carcere (1929-1935) – si consiglia l’ed. critica dell’Istituto, a cura di V. Gerratana (Einaudi, Torino 1975); V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, Tipografia Milanese in Strada nuova, Milano Anno IX repubblicano, 1800-1801 – si consiglia V. Cuoco, Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799, a cura di P. Villani, Laterza, Roma-Bari 1976.