Appunti dal Libano: dove finisce chi arriva dalla Siria?

28 / 4 / 2014

Non sono sufficiente certo pochi giorni per comprendere una realtà come il Libano, ma alcuni spunti, come spesso succede, possono venire a lato degli incontri che si fanno ed osservando parzialmente quel che intravedi.

Per cui ecco poche note dopo solo tre giorni in cui ci troviamo nel paese e per ora siamo andati nei campi profughi storici palestinesi di Sabra e Shatila, in un paio di quelli situati nella zona di Tiro e nella Valle della Bekaa, visitando le strutture costruite e gestite dall’Assomud, organizzazione palestinese laica che si occupa, di formazione e sanità.

L’impatto con Beirut centro non fa che confermare, adattandolo ai tempi contemporanei, la definizione del Libano come “svizzera del medioriente”. Alcune zone ti colpiscono per le costruzioni imponenti, i palazzi lussuosi, le vie piene di negozi dei grandi marchi, altre per le strade e agglomerati ristrutturati e puliti, li ocali alla moda, altre per la sfilza di ristorantini e baretti pieni di ragazze e ragazzi all'ra dell'aperitivo.

Uno scenario ben diverso dalle città anche grandi del Maghreb. Tutto intorno cantieri in costruzione in parte collegati alle imprese connesse con la famiglia Hariri ed altri legati con altri centri di potere economico. I prezzi immobiliari di cui ci raccontano ci parlano di un mercato possibile di acquirenti in grado di spendere cifre a tanti zero per comperare case, appartamenti ed uffici. Un’immagine dunque che conferma come nei nuovi scenari la vocazione di questo paese sia quella di attrarre ed essere luogo di gestione di ingenti flussi finanziari di ogni tipo.

Questo spiega in parte perché secondo alcuni, al di là della competizione formale tra le forze politiche, confessionali presenti nel paese ci sia la volontà di mantenere una stabilità che si rappresenta oggi in un governo di “larghe intese” alle prese proprio in questi giorni con la lunga questione dell’elezione del presidente, frutto di equilibri ovviamente difficili da trovare, anche perché collegati ai legami regionali ed internazionali di ogni componente.

La fotografia di Beirut centro con le sue luci ed il suo luccichio man mano cambia di inquadratura quando ti sposti verso le periferie, piene di palazzoni dove più forte è la presenza di Hezbollah.

Non è possibile affrontare il Libano senza collegarlo a quanto avviene in Siria e nell’intera regione e nello scenario delle connessioni internazionali che si consumano nella guerra siriana.

Quanto il futuro sia “nelle mani dei libanesi” e quanto sia nelle scelte regionali, internazionali che collegano nel mondo globalizzato ogni dinamica è una domanda che non riguarda solo questa terra ma ogni territorio. Tensioni ed attori locali richiamano questioni globali e viceversa in questa nostra contemporaneità in divenire all’interno di scenari internazionali che non hanno certo un solo manovratore, ma più attori nella ricerca di ridefinizione geopolitiche di intere zone.

E quel che avviene in Siria e si riflette in Libano non è certo esente da queste dinamiche.

Dalla Siria sono arrivate più di un milione di persone, sfuggendo alla guerra.

Siamo partiti avendo ben chiaro in testa questo imponente numero. 

Arrivati qui, per il momento, quel che abbiamo compreso è che il flusso attraverso il confine avviene in maniera ben diversa dalla classica dimensione della costruzione dei campi profughi come di solito succede.

I siriani che abbandonano la loro terra, magari per un periodo per poi provare a tornare e magari di nuovo ritornare in Libano, si diluiscono e si inseriscono nella realtà libanese a seconda della loro provenienza attraversando in molti casi la rete delle relazioni presistenti.

Chi appartiene alle fasce elevate della società siriana si può stabilire nella capitale, affittare una casa, aprire un'attività.

Chi proviene da fasce più povere cerca di sistemarsi nei villaggi, magari in affitto in tre, quattro famiglie insieme,   oppure finisce nei quartieri più poveri o negli storici campi profughi palestinesi, come ci hanno raccontato a Sabra e Shatila dove gli affitti sono più bassi.

Chi è palestinese e viveva in Siria finisce nei campi palestinesi, aumentando il numero già ampio delle persone e delle difficoltà.. 

La presenza dei profughi siriani per quel che abbiamo visto finora non è visibile, raggruppata anche perché su questo punto la posizione delle autorità libanesi è chiara e non prevede punti raccolta collettivi di chi arriva.

Questo non significa che sia una situazione facile soprattutto per chi ha lasciato la Siria senza niente: ci sono fondi dati dalle agenzie dell’Acnur  ai rifugiati ma come sempre sono insufficienti. In Libano l’accesso ai servizi, come quello sanitario o educativo non è garantito neanche ai profughi storici, come quelli palestinesi e dunque men che meno ai nuovi arrivati.

Chi entra in Libano deve andare a registrarsi a Beirut se vuole figurare negli elenchi dei profughi. Non tutti lo fanno che chi sceglie di non apparire per paura di ritorsioni sui famigliari rimasti in Siria o per paura di finire nel mirino dalle forze libanesi che appoggiano uno o l’altra degli attori del conflitto siriano. 

In molti, soprattutto quelli più poveri seguono il flusso degli aiuti umanitari e si vedono, da quel che ci raccontano, nei momenti in cui vengono distribuiti aiuti, kit alimentari e sanitari di volta in volta in posti diversi.

Di certo come per tutti quelli che sfuggono da situazioni di conflitto non esiste la possibilità che sarebbe quanto mai fondamentale qui come in ogni parte, di accedere alla possibilità di muoversi verso l’Europa o verso altri luoghi in maniera semplice e diretta attraverso canali umanitari pubblici e garantiti.

I siriani che arrivano in Libano costituiscono inoltre un ulteriore bacino di mano d’opera a basso costo con tutte le conseguenze del caso per chi vuole sfruttarli.

Di quel che avviene in Siria ci parlano direttamente per primi due ragazzi palestinesi che incontriamo presso un centro palestinese.

Sono arrivati da pochi mesi, scappati da un campo palestinese che in migliaia hanno lasciato perché stretto tra la repressione del regime e le forze d’opposizione armate. Subito ci tengono ad affermare la loro opposizione al regime siriano, sottolineando come il problema non sia una sola persona Asad ma un sistema di potere, un regime appunto. 

Alla domanda se ci fosse libertà in Siria non hanno esitazioni a rispondere no. 

Si definiscono attivisti non violenti anche se dicono di comprendere chi imbraccia le armi. Dicono di essere stati perseguitati semplicemente per il fatto di denunciare e raccontare quel che patiscono le persone questo sia da parte del regime che dei “barbuti”. Attraverso la traduzione non facile dall’arabo ci raccontano la situazione di dramma umanitario che vivono in migliaia di persone  a Yarmouk, campo palestinese di Damasco, accerchiato dall’esercito siriano perché all’interno vi sono ribelli armati. Una situazione di assedio che dura da anni e che negli ultimi mesi si è fatta sempre più insostenibile, con pochi aiuti umanitari alimentari che vengono portati con il contagocce causando feriti e morti tra le persone che cercano di avere qualche alimento.

Ci parlano poi del fatto che esistono altri attori che si oppongono al regime non solo i gruppi armati in molti casi finanziati dall’esterno. 

Raccontano come nel 2011 prima e dopo l’inizio della rivolta contro il regime in poco tempo sono stati imprigionati migliaia di persone, in molti casi impegnati a mantenere i legami tra una fascia intellettuale e la base sociale, impedendo lo sviluppo di un’opposizione articolata. Si è così creata una situazione, ci raccontano, in cui in molti non hanno più avuto punti di riferimento e dove è stato facile aderire ad altre forme di opposizione.

Cerchiamo di saperne di più ma non è semplice capirsi e perciò ci ripromettiamo di rincontrali nei prossimi giorni.

In questi primi giorni in Libano abbiamo chiesto più volte ai palestinesi che ci accompagnano qual è il loro punto di vista su quel che succede in Siria, dove la presenza dei profughi palestinese sotto il regime era accettata e garantita. Il discorso ufficiale che ci viene proposto è che un conto è l’opposizione interna siriana al regime, un conto gli attori armati finanziati e mandati dall’esterno (dagli americani e dai paesi arabi) per destabilizzare l’intera area. Poi quando si riesce ad andare più a fondo e superare le “dichiarazioni ufficiali” si colgono maggioramente le sfaccettature e le contraddizioni tra chi anche palestinese vede le cose siriane dal Libano e chi venendo direttamente dalla Siria è più esplicito e diretto nel denunciare il regime. 

Tra i palestinesi che abbiamo incontrato è forte il tentativo di leggere in maniera schematica la situazione e solo quando insisti si arriva ad ammettere che se si parla di ingerenze straniere in Siria non ci sono solo da una parte, quella occidentale e araba ma anche Iran, Russia giocano un ruolo rilevante. In più di un discorso c’è stato sottolineata la preoccupazione per la presenza in Siria ed ovviamente in tutta l’area delle forze che utilizzano la religione per i propri fini politici, cosa che peraltro avviene anche tra le componenti palestinesi a volte anche qui in forte attrito tra loro.

Certo è che quel che succede in Siria conta e non poco nella realtà di tutti i protagonisti libanesi, palestinesi compresi. 

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