Armi, investimenti e soft power. La Turchia alla conquista dell’Africa

18 / 11 / 2021

Un articolo tratto da Pagine Esteri, pubblicato il13 novembre 2021. L'autore è Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nordafrica. Scrive tra le altre cose di Spagna e Catalogna.

Alle prese da anni con consistenti problemi economici all’interno – da ultime l’inflazione e la continua svalutazione della Lira – Recep Tayyip Erdoğan continua a mietere successi in politica estera, procedendo come uno schiacciasassi nella sua strategia di trasformazione della Turchia in potenza regionale con proiezione globale, anche grazie all’indebolimento delle potenze occidentali e della rivalità tra queste e quelle emergenti.

Rafforzate le sue posizioni nel Caucaso, in Medio Oriente e nei Balcani, da tempo il “sultano” persegue con successo anche il consolidamento dell’influenza turca nel continente africano, dimostrando di non limitare le proprie mire allo spazio geopolitico un tempo dominato da un impero ottomano ai cui fasti Erdoğan si richiama esplicitamente.

In vista del terzo summit Turchia-Africa, che si è tenuto il 17 e 18 dicembre ad Istanbul, il presidente turco ha compiuto a ottobre l’ennesimo viaggio nel continente che Ankara contende agli ex paesi coloniali e alla Cina.

Erdoğan l’africano

Nessun capo di stato non africano ha mai percorso il continente come ha fatto Erdoğan dalla sua ascesa al potere: dal 2002 il presidente ha infatti visitato ben 28 paesi africani, alcuni dei quali più volte, per un totale di 38 visite realizzate. Il protagonismo della Turchia ha prodotto innegabilmente i suoi frutti: il volume degli scambi commerciali con l’Africa, che era di soli 5.5 miliardi di dollari nel 2003, ha raggiunto quota 25 miliardi nel 2020, e le esportazioni turche nel continente sono passate nello stesso periodo da 2 a 15,2 miliardi. Si tratta di cifre ancora molto contenute rispetto ai livelli cinesi, ma che comunque indicano una netta progressione dell’influenza turca. E ora Ankara punta a raggiungere i 50 miliardi di interscambio nel 2023, in occasione del centenario della fondazione della Repubblica.

Si tratta di un risultato scientificamente perseguito da Ankara e agevolato dall’apertura di una fitta rete di sedi diplomatiche: dal 2009 il numero di ambasciate turche in Africa è passato da 12 alle attuali 43. La presenza diplomatica è stata affiancata dall’offerta di un vero soft power turco, supportato dall’Agenzia per la Cooperazione e lo Sviluppo Internazionale di Ankara (Tika) che ora opera nel continente tramite ben 30 centri operativi.

Negli ultimi anni sono aumentate anche le scuole gestite da una fondazione legata al presidente turco, la Maarif, che attualmente istruiscono in inglese circa 17 mila studenti – in genere provenienti dalle famiglie delle élite – in 25 paesi africani. Molte di queste sono state aperte dalla confraternita di Fethullah Gülen, per anni padrino e mentore di Erdoğan, ma poi sono state assimilate dalla fondazione governativa dopo che i due sono diventati acerrimi nemici.
A completare il quadro ci sono i sette centri africani aperti dall’Istituto Yunus Emre, l’istituto di lingua e cultura di Ankara.Lo sviluppo delle relazioni politiche, culturali ed economiche è stato potenziato dall’espansione degli scali della Turkish Airlines, che garantisce voli per ben 60 destinazioni in 39 diversi paesi africani.

paesi mediterraneo

La strategia di penetrazione turca in Africa, pervicacemente perseguita da Erdoğan, è in realtà stata ereditata dai precedenti governi, in particolare da quello guidato dal repubblicano Bülent Ecevit. Il ‘no’ dell’Unione Europea alla richiesta di adesione di Ankara, non solo ha contribuito a rinfocolare il mai sopito nazionalismo turco, ma ha spinto una parte della classe dirigente e dell’intellighenzia a ricercare la proiezione internazionale del paese nei territori appartenuti in passato all’Impero Ottomano ed in altre aree del pianeta. Non a caso nel 1998 il governo ha approvato un documento strategico, intitolato “Opening up to Africa policy”, che prevedeva un aumento dell’attività diplomatica, l’offerta ai paesi africani di assistenza tecnica e umanitaria e un’offensiva di natura economica e commerciale. Gli esecutivi dell’epoca non furono in grado di applicare il progetto i cui obiettivi vennero però subito recuperati e rilanciati dal leader del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp).

La scalata turca all’Africa

Da quel momento quella turca nel continente africano è stata una vera e propria escalation. La svolta nei rapporti è avvenuta nel 2005, definito da Ankara “anno dell’Africa”, con i primi viaggi dell’allora primo ministro Erdoğan in Etiopia e Sudafrica.

La scalata turca all’Africa

Nel 2008 l’Unione Africana ha dichiarato la Turchia “partner strategico”, facilitando così la firma dei primi numerosi accordi commerciali, culturali e militari. L’anno dopo si è tenuto ad Istanbul il primo vertice del partenariato Turchia-Africa con la presenza di rappresentanti di 50 diversi paesi, seguito da un secondo vertice organizzato in Guinea Equatoriale nel 2014.

All’inizio la Turchia ha puntato soprattutto su paesi islamici scossi dalla guerra civile, offrendo il proprio sostegno ad alcune delle fazioni. In Somalia ha sostenuto militarmente le forze governative contro la guerriglia fondamentalista di Al Shabaab, mentre in Libia è intervenuta militarmente a sostegno del Governo di Accordo Nazionale di Tripoli, ribaltando la situazione a favore di quest’ultimo nello scontro con il Generale Khalifa Haftar e le forze della Cirenaica. Ankara è così riuscita a ottenere importanti basi a Tripoli e nel porto di Misurata, e dal 2017 ha installato sulla costa della Somalia il campo militare Turksom, 5 km quadrati destinati ad ospitare il personale militare turco e all’addestramento dei soldati somali, in una posizione strategica per controllare il Golfo di Aden e il Mar Rosso.

La presenza militare turca nei due paesi ovviamente ha aperto la strada ad una posizione privilegiata nello sfruttamento delle risorse energetiche e nella gestione di importanti infrastrutture: aziende turche, ad esempio, gestiscono il porto e l’aeroporto di Mogadiscio. Concentrando per alcuni anni i propri sforzi nel Corno d’Africa – ed entrando in competizione con Emirati Arabi, Arabia Saudita ed Egitto, oltre che con la Cina – la Turchia è diventata il secondo partner commerciale dell’Etiopia. Qui l’azienda turca Yapi Merkezi si è aggiudicata un appalto da 2 miliardi di dollari per la realizzazione di una ferrovia lunga 4000 km che collega il Nord al Centro del paese per poi arrivare a Gibuti. La Yapi Merkezi ha vinto anche l’appalto per la realizzazione di un’altra ferrovia, che collega la capitale della Tanzania, Dar Es Salaam, sull’Oceano Indiano, con l’interno del paese. Entrambe le grandi opere, come molte altre in Africa, sono state finanziate dalla Türk Eximbank, la banca statale pubblica di Ankara che finanzia le opere pubbliche all’estero agevolando ovviamente le imprese turche nell’aggiudicazione degli appalti.

Contemporaneamente Ankara ha diretto le proprie attenzione verso l’Africa Settentrionale e il Sahel – recentemente ha confermato la presenza di sue truppe in Mali e nella Repubblica Centrafricana nell’ambito di missioni ONU – sfruttando l’indebolimento della presa di Parigi sulla “Françafrique”.

Il tour in Africa occidentale

Dopo che l’influenza di Ankara è rapidamente cresciuta sia nel Sahel occidentale sia nell’Africa orientale, nelle scorse settimane un tour di quattro giorni iniziato il 17 ottobre ha portato il “sultano” in Angola, Togo e Nigeria, tre paesi affacciati sul Golfo di Guinea in un’area dell’Africa occidentale strategica per gli interessi turchi.

La Nigeria è infatti il primo produttore di petrolio del continente e l’undicesimo a livello mondiale, con 1,8 milioni di barili estratti giornalmente nel 2020, seguita proprio dall’Angola. A Luanda il presidente turco ha incontrato il suo omologo João Manuel Gonçalves Lourenço, che lo scorso luglio durante una visita ad Ankara aveva già firmato dieci diversi accordi.

Nel giro africano Erdoğan è stato accompagnato dai ministri degli Esteri, dell’Energia, della Difesa e del Commercio, oltre che da uno stuolo di funzionari del Deik, l’Ufficio per le Relazioni Economiche con l’Estero.

La “fratellanza”. Il soft power turco in Africa

L’obiettivo della Turchia è «vincere insieme, crescere insieme, camminare insieme», ha scritto il leader turco su Twitter dopo il tour in Africa occidentale, attaccando le potenze europee e i loro tentativi di «preservare i vecchi metodi coloniali». Durante la sua visita al parlamento angolano, Erdoğan ha affermato che «il destino dell’umanità non può e non deve essere lasciato alla mercé di una manciata di paesi vincitori della seconda guerra mondiale», spingendosi a descrivere la Turchia come uno “stato afro-euroasiatico” erede dei fortissimi legami storici tra l’Impero Ottomano e i regni africani. «Le nostre relazioni con i Paesi africani non sono basate sul colonialismo e vogliamo avere successo insieme ai nostri fratelli e sorelle di tutto il continente» ha continuato il leader turco, insistendo su una retorica che da tempo caratterizza il messaggio rivolto da Ankara ai paesi africani e che dipinge la Turchia come una benefattrice.

La “fratellanza”. Il soft power turco in Africa

A sentire i leader turchi, Ankara offrirebbe ai suoi partner dei rapporti vantaggiosi per tutte le parti – “win-to-win” – utilizzando un modello di relazione alternativo sia a quelle delle potenze coloniali e postcoloniali sia a quello cinese, che molti paesi cominciano a considerare sempre più asfissiante.

Erdoğan utilizza spesso l’espediente retorico della “fratellanza”, utile a caratterizzare il suo messaggio in senso religioso ma anche politico – l’Akp è il capofila della corrente politica della “Fratellanza Musulmana” – in un discorso che tende a mettere la Turchia e i paesi africani sullo stesso piano, descritti come vittime storiche delle mire e delle manovre delle grandi potenze e quindi alla ricerca di un proprio modello di sviluppo autonomo.

«Vediamo i popoli africani come nostri fratelli, con i quali condividiamo un destino comune. Affrontiamo il loro dolore non con obiettivi politici, strategici e basati sugli interessi, ma umanamente e coscienziosamente» aveva già spiegato Erdoğan durante un incontro con il presidente del Senegal. Un discorso che fonde suggestioni solidaristiche, religiose, culturali e politiche e che sembra aver funzionato soprattutto nei paesi africani a maggioranza islamica. D’altronde, Ankara e le sue istituzioni umanitarie negli ultimi anni hanno donato milioni di dollari per la realizzazione di progetti in diversi paesi africani.

Dal 2009 al 2019 la Turchia ha inoltre investito nel continente 2,5 miliardi di dollari per realizzare diversi progetti e opere pubbliche. Per non parlare delle decine di moschee edificate ex novo o restaurate in diversi paesi africani dove la simpatia per la Turchia cresce, alimentata dall’interesse suscitato dalle serie sfornate dall’industria cinematografica di Ankara, mentre Istanbul è divenuta una delle mete turistiche preferite dai turisti del Maghreb e di altre aree del continente africano.

Nel 2008 l’Unione Africana ha dichiarato la Turchia “partner strategico”

L’appeal delle armi turche

Ma non bastano il soft power e gli investimenti nelle opere pubbliche, oltre che la competitività dei prodotti commerciali esportati da Ankara, a spiegare il successo della strategia africana di Erdoğan.

Un appeal ulteriore è rappresentato dai prodotti dell’industria militare turca. Non a caso della delegazione impegnata nel tour in Nigeria, Togo e Angola facevano parte anche numerosi funzionari della Savunma Sanayii Baskanligi (SSB), l’agenzia governativa incaricata di promuovere l’industria della difesa anatolica. 

Strettamente controllata dalla presidenza, la SSB si occupa dell’approvvigionamento e dell’esportazione di attrezzature militari ed armamenti, sostenuta dai crediti garantiti dalla Türk Eximbank e da un complesso militare-industriale sempre più prolifico. Ad attirare in particolare diversi governi africani sono i droni da bombardamento prodotti dall’ingegnere Selcuk Bayraktar, rivelatisi decisivi nell’assalto azero alle truppe armene, nello scontro libico e nell’invasione turca del nord della Siria, e che sono già in dotazione alle truppe di diversi paesi del continente. Particolarmente ambite sono anche le capacità di addestramento dell’esercito turco e i navigli da guerra prodotti nei cantieri anatolici.

Finora la strategia turca ha fatto breccia approfittando degli spazi lasciati liberi dalle ex potenze coloniali e dalle opportunità offerte dalla sempre più aspra competizione tra vecchi e nuovi protagonisti della lotta per l’egemonia. La Cina, il principale attore straniero nel continente, ha spesso lasciato fare, come d’altronde la Russia, interessate a utilizzare la penetrazione turca – sempre più in conflitto con gli interessi di Francia e Stati Uniti nel quadrante africano così come in quelli mediterraneo e mediorientale – per indebolire le potenze coloniali e postcoloniali anche a costo di perdere qualche opportunità. Ma il graduale rafforzamento di Ankara potrebbe cominciare a preoccupare alcune cancellerie, che potrebbero far scattare le opportune contromisure. A Parigi molti ambienti politici, economici e militari contano i giorni che mancano alle prossime presidenziali, impazienti di assistere all’uscita di scena di Emmanuel Macron, giudicato incapace anche solo di mantenere le posizioni tradizionalmente occupate dalla Francia nell’ex cortile di casa.