Bangladesh - Benetton e gli altri: insopportabili lacrime di coccodrillo

Pagati un dollaro al giorno i lavoratori morti a Dacca

15 / 5 / 2013

Prendevano 1 dollaro al giorno i lavoratori morti nel crollo del Rana Plaza in Bangladesh, uno dei tanti palazzi, capannoni, scantinati dei paesi asiatici da cui provengono i tessuti dei grandi marchi mondiali, europei ed italiani.

Esemplare il caso della Benetton che all'inizio aveva negato di aver mai avuto contatti con il laboratorio di Dacca, poi ha iniziato a dire che "forse c'era stata qualche commessa .. ma ultimamente mai!" e che ieri si è affrettata a firmare insieme ad altri marchi un improbabile Bangladesh Fire and Building Safety Agreement. Il protocollo, sponsorizzato dai sindacati internazionali prevede che nei prossimi cinque anni (sic!) verrà messo in atto un piano operativo per la messa a norma delle fabbriche. Oltre alla Benetton lo hanno firmato la svedese H&M (primo aquirente di abiti in Bangladesh), l'olandese CeA, la britannica Tesco, la spagnola Mango.

Il piano viene descritto dall'amministratore delegato di Benetton, Biagio Chiarolanza in un intervista sul Corriere della Sera così " .. sono principi guida che porteranno poi a un piano operativo, ma non sono solo parole".

E' incredibile che di fronte a quello che è successo, 1127 persone morte in un colpo solo, e a quello che succede tutti i giorni, si voglia semplicemente  porre l'attenzione sul problema, che peraltro esiste, delle condizioni "a norma" dei luoghi di lavoro. Sull'onda delle proteste nel paese anche il governo del Bangladesh ha fatto chiudere 16 filande per controlli di sicurezza e gli industriali della Bangladesh Garment Manufactures and Exporters Association hanno detto che faranno chiudere 200 fabbriche tessili a tempi indeterminato.

Ma oltre a queste prese di posizione sulle strutture delle "fabbriche" bisogna guardare dentro ai muri fatiscenti: uomini e donne che lavorano pagati pochi spiccioli, assenza dei più elementari diritti.

Le mura cadute sono il simbolo di una filera di produzione globale basata sullo sfruttamento più totale.

Dall'articolo apparso nei giornali veneti (Mattino, Tribuna e Nuova Venezia di mercoledì 15 maggio) sul crollo del palazzo di otto piani a Dakka, (che ospitava cinque fabbriche di vestiti con 5000 addetti, costato la vita a 1127 persone oltre ai 176 dispersi) emergono i legami tra i marchi, in particolare del Veneto, e la produzione in Bangladesh.

Calzedonia, Coin, Diesel, Diadora ed ovviamente Benetton hanno legami produttivi diretti o attraverso subfornitute in  lavorazioni nel paese asiatico.

"Ma perchè tutti i principali marchi dell'abbigliamento mondiale vanno in Bangladesh a produrre le proprie magliette? Per le stesse ragioni per cui i produttori di filati vanno in Vietnam, i produttori di piumini vanno in Cina e i produttori di palloni in Pakistan.

Perchè la materia prima costa pochissimo e la manodopera poco di più. Il salario medio di un operaio tessile, costretto a turni di dodici ore al giorno è di 32 dollari americani al mese, praticamente un dollaro al giorno; ma è un risultato raggiunto solo dopo una lunga serie di agitazioni sindacali e che rappresenta comunque la metà della soglia di povertà (60 dollari al mese). Inoltre i dazi doganali applicati sulle merci esportate sono bassissimi poprio per cercare di sollevare l'economia del paese"

Bastano queste poche righe dell'articolo di Daniele Ferrazza per darci la misura dell'inaccettabile condizione in cui sono costretti migliaia di lavoratrici e lavoratori.

Aggiungiamoci anche che "una maglietta prodotta in Bangladesh, venduta nei negozi europei a 49 euro, a seconda del cotone adoperato può costare da un minimo di 90 centesimi ad un massimo di 5 dollari" e capiamo ancora di più che il problema non solo solo i muri che crollano, ma le vite che vengono prosciugate per fare profitti.

Ed ancora dal Bangladesh, racconta l'articolo, "nel 2011 sono stati esportati 200 milioni di paia di jeans (il 20% della produzione mondiale) di cui quasi la metà sottoposta a sabbiatura. Questa lavorazione chiamata sandlasting è ritenuta particolamente nociva perchè gli operatori sono chiamati a spruzzare, con delle speciali pistole ad aria compressa i jeans dei marchi più noti al mondo per ottenere l'effetto sbiancante. Questo sistema porterebbe gli operai ad ammalarsi di silicosi a causa dell'inalazione delle polveri di silicio".

Per cui non solo muri che crollano, paghe da fame ma anche la devastazione dei corpi.

Tra i nomi che continuano ad emergere in tutti gli articoli che descrivono questi gironi danteschi della globalizzazione ci sono tutti i marchi più famosi (Benetton, Diesel, Calzedonia e molti marchi del Veneto etc ..). Tutti sono impegnati in questi giorni a minimizzare e si affannano a firmare improbabili impegni.

Ma come non ricordare come nel caso di Benetton, addirittura il tentativo di smentire il proprio coinvolgimento, salvo fare marcia indietro davanti alle foto come quelle che hanno immortalato il marchio dell'industria trevigiana tra le macerie del palazzo di Dakka?

Ed ora nessuno può più dire "io non sapevo ..".

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