Basta sangue in Sudan. No alla repressione militare!

25 / 6 / 2019

L’Associazione Ya Basta Êdî Bese ha esposto allo Sherwood Festival uno striscione di solidarietà con le lotte del popolo sudanese e contro i gravissimi episodi di repressione militare che si sono verificati nel paese nel corso di questo mese. Infatti, alcune settimane dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir, la giunta militare al potere ha avviato un giro di vite che ha causato la morte di oltre cento civili e innumerevoli ferimenti e stupri. La repressione è sostenuta dall’Arabia Saudita e altri alleati delle potenze occidentali, per questo è necessario esprimere il nostro pieno dissenso. Sosteniamo le mobilitazioni popolari che continuano in Sudan per la democrazia e la giustizia sociale!

Nel dicembre 2018, in Sudan, un movimento popolare mosso dalle parole d’ordine di democrazia e giustizia sociale ha dato il via a una serie di proteste contro il regime di Omar al-Bashir, un militare islamista al potere dal 1989. Incoraggiato anche dalla caduta di Abdelaziz Bouteflika in Algeria, il movimento sudanese – nel quale spiccano l’Associazione dei professionisti sudanesi e la Coalizione per la libertà e il cambiamento – ha portato alla rimozione del capo dello stato l’11 aprile 2019. Il potere è stato però assunto da un Consiglio militare transizionale capeggiato dal generale Abdel Fatah al-Burhan. Le negoziazioni sul futuro dell’assetto istituzionale del paese che si sono tenute tra il Consiglio militare e la Coalizione per la libertà e il cambiamento si sono però arenate a maggio. La giunta militare ha così deciso di colpire con il pugno di ferro le mobilitazioni che servivano a dare peso all’opposizione nelle trattative.

All’alba del 3 giugno, le forze dell’ordine sudanesi hanno sgomberato brutalmente il presidio rivoluzionario di fronte al quartier generale dell’esercito, nella capitale Khartoum. I militari hanno sparato sui manifestanti e il bilancio dei morti si è costantemente aggravato, superando le cento vittime dopo che decine di corpi sono stati estratti dal Nilo. I militari, e in particolare le Rapid Support Forces (anche note come Janjaweed, famose per i crimini di guerra nel Darfur) hanno anche utilizzato gli stupri come arma per terrorizzare la resistenza. In risposta a queste gravissime violazioni dei diritti civili più basilari, l’opposizione ha dichiarato una campagna di disobbedienza civile e uno sciopero generale che si è svolto il 9 e il 10 giugno. Lo sciopero è stato a sua volta colpito dal giro di vite, con ulteriori caduti per mano dei militari, e sul paese è caduto un black out di internet. Le proteste tuttavia non si sono arrestate. Proprio ieri le forze dell’ordine hanno violentemente disperso una protesta studentesca contro la giunta militare.

Il ruolo di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – nonché dell’Egitto il cui attuale regime è esso stesso il frutto dell’ingerenza delle due petromonarchie – era già noto ma è diventato ancora più evidente quando a fine maggio il generale Burhan ha visitato tutti e tre i paesi per decidere sul da farsi. Il generale Hemetti, comandante delle Rapid Support Forces, ha invece incontrato l’ormai famigerato principe ereditario saudita Mohamed Bin Salman a Jeddah nello stesso periodo. Arabia Saudita ed Emirati sono alla guida di una delle coalizioni contro-rivoluzionarie del medio oriente, coalizioni in competizione tra loro ma pur sempre unite nel loro obiettivo di colpire le aspirazioni alla democrazia e alla giustizia sociale espresse dalle mobilitazioni popolari che hanno scosso enormemente la regione negli ultimi anni. Le petromonarchie hanno finanziato e appoggiato ovunque gli fosse possibile un ritorno a una pace sociale imposta con la canna del fucile e basata sulla rendita petrolifera. La guerra in Yemen con le sue efferate stragi di civili è uno dei risultati di questa politica (e a questo proposito ricordiamo che il Sudan vi ha inviato soldati a combattere al fianco di Arabia Saudita ed Emirati). Nel caso del Sudan, i finanziamenti erogati alla giunta militare da parte di Arabia Saudita ed Emirati sarebbero di almeno tre miliardi di dollari.

Non dimentichiamo che tali regimi sono in grado di esercitare il loro potere in forme tanto brutali, sia al proprio interno che all’estero, grazie anche alla complicità delle potenze occidentali che li armano in cambio dei combustibili fossili che vi si estraggono. La compagnia petrolifera saudita Saudi Aramco è la società più profittevole al mondo grazie alle sue partnership con le compagnie energetiche occidentali. Emerge quindi la connessione tra le lotte per i diritti civili e la redistribuzione del reddito – come la Primavera araba, l’Hirak del Rif in Marocco e più recentemente le mobilitazioni in Algeria e in Sudan – e le lotte per la giustizia climatica altrove. Se le grandi potenze mondiali non persistessero nel riprodurre un sistema energetico basato sui combustibili fossili, le petromonarchie arabe non potrebbero reprimere nel sangue le lotte di classe nella regione come hanno fatto finora. È per questo importante sottolineare anche l’importanza della vittoria dei lavoratori portuali che hanno proprio in questi giorni portato a casa il risultato di bloccare l’esportazione di armi belliche dal porto di Genova all’Arabia Saudita.

In seguito agli appelli alla solidarietà internazionale che ci arrivano dal Sudan, abbiamo ritenuto importante unirci alle molte condanne della gravissima repressione avvenuta nel paese. I despoti che hanno infranto le aspirazioni della Primavera araba non dormano sonni tranquilli, la contemporanea ripresa della contestazione sociale nella regione prova che la partita non è chiusa. Le mobilitazioni in Sudan stanno continuando e non è questo il momento di restare in silenzio. Basta sangue, no alla repressione militare!