Beirut subisce una catastrofe che vivrà a lungo nella memoria, e il ripetuto tradimento dei suoi cittadini è una presa in giro

9 / 11 / 2020

La settimana scorsa ci ha lasciati all'età di 74 anni una grande firma del giornalismo: Robert Fisk. Fisk ha raccontato, negli ultimi cinquant'anni, la guerra nei Balcani, i conflitti in Medio Oriente ed in Nord Africa, e soprattutto la guerra civile in Libano, dove ha trascorso gran parte della sua vita. Fisk fu uno dei primi giornalisti ad entrare a Sabra e Shatila nel 1982 e poterne raccontare l'orrore del massacro. Nell'incipit dell'articolo che scrisse, si riescono a cogliere tutta l'umanità e l'empatia che hanno sempre caratterizzato il suo lavoro: “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l'odore. Grosse come mosconi, all'inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti". Per ricordarlo pubblichiamo su globalproject.info uno dei suoi ultimi articoli di mercoledì 5 agosto 2020 uscito sull' "Indipendent", in seguito all'esplosione di Beirut. Traduzione a cura di Marco Miotto.

La popolazione libanese affronta un terribile mix di rovina economica a lungo termine, una pandemia e ora una devastante esplosione. Il tutto presieduto da un governo indegno, dice Robert Fisk. 

Vi sono momenti nella Storia di una nazione che rimangono congelati per sempre. Non sono necessariamente le peggiori catastrofi che travolgono la sua gente, né le più politiche, ma catturano la tragedia infinita di una società viene in mente Pompei, la sua romana sicurezza e la sua corruzione imperiale tutto a un tratto travolta da un atto divino – così calamitoso che da sempre e per sempre si può vedere la rovina dei suoi cittadini, anche i loro cadaveri.

Ci serve un’immagine, qualcosa che in un istante mette a fuoco la nostra attenzione sulla follia che sta dietro la calamità umana. Il Libano ci fornisce quell’istante.

Non sono i numeri che contano in questo contesto. La sofferenza di Beirut di Martedì 4 Agosto 2020 non si avvicina a un bagno di sangue casuale durante la guerra civile – né alla quotidiana efferatezza della morte in Siria, del resto.

Anche se il numero totale dei morti – da 10 a 60 a 78 la scorsa notte (4/8/2020) e , molto probabilmente, a un centinaio oggi (5/8/2020) – vengono contati, verrà appena registrato nella scala Richter della guerra. Non è stata neanche, sembra, una conseguenza della guerra,  almeno non nel senso diretto suggerito da uno dei leader più pazzi al mondo.

È l’iconografia – e tutto quello che noi sappiamo rappresenti – che verrà ricordata in un paese che a malapena riesce a gestire una pandemia, che esiste all’ombra del conflitto, che affronta la fame e che attende l’estinzione. Le nuvole gemelle sopra Beirut, l’una che dà vita all’altra, mostruosa, non saranno mai cancellate.

Le immagini raccolte da metri di pellicola, di fuoco e tuoni e apocalisse, a Beirut sono tutt’uno con i quadri medievali che cercavano di catturare, attraverso l’immaginazione al posto della tecnologia, il terrore della pestilenza, della guerra, della carestia e della morte. Tutti conosciamo il contesto, lo “sfondo” senza il quale nessuna sofferenza è completa: un paese in bancarotta che è stato posseduto per generazioni da vecchie famiglie venali; schiacciato da dai paesi vicini, il ricco che schiavizza il povero, la sua società mantenuta dalla stessa faziosità che lo sta distruggendo.

Potrebbe esserci una riflessione dei suoi peccati più simbolica dei velenosi esplosivi immagazzinati così promiscuamente al centro della sua più grande metropoli? E il cui primo ministro, che dopo l’esplosione ha detto che “i responsabili” – non lui, non il governo, sia chiaro – “pagheranno il prezzo”? Non hanno ancora imparato vero?

Di sicuro sappiamo tutti come questa “storia” finirà, nelle ore e nei giorni a venire. L’incipiente rivoluzione libanese dei giovani e degli istruiti dovrà sicuramente acquisire nuova forza per rovesciare i governanti libanesi, per richiamarli alle proprie responsabilità, per costruire un nuovo stato moderno e laico dalla rovina della repubblica creata dai francesi, nella quale nacquero senza pietà.

Ebbene, la tragedia su qualsiasi scala è un cattivo sostituto del cambiamento politico. La promessa immediata di Emmanuel Macron tra gli incendi di ieri (4/8/2020) – che la Francia starà “sempre” al fianco della nazione danneggiata che lei stessa ha creato con imperialistica arroganza cent’anni fa – è una delle ironie più argute delle ultime ore, non da ultimo perché il ministro degli esteri francese si è lavato le mani dell’economia libanese.

Negli anni ‘90, quando stavamo pianificando la creazione di un nuovo Medio Oriente all’indomani dell’anschluss del Kuwait da parte di Saddam Hussein, gli ufficiali dell’esercito americano (tre nel caso dell’Iraq settentrionale) cominciarono a parlarci di “affaticamento da compassione”. Immoralmente, questo significava che l’Occidente era in pericolo di abbandonare la sofferenza umana. Ce n’era troppa, tutti questi conflitti regionali, anno dopo anno, e si sarebbe arrivati ad un punto in cui avremmo dovuto chiudere le porte alla generosità. Forse il punto è arrivato quando i rifugiati hanno cominciato a marciare, a centinaia di migliaia, verso l’Europa, preferendo la nostra società alla versione offerta dall’Isis.

Ma torniamo al Libano, dove la compassione occidentale potrebbe essere molto scarsa. La prospettiva della Storia può sempre essere invocata per schermarci dal rumore delle esplosioni, dalla nuvola a forma di fungo e dalle immagini della città devastata. Pompei, dicono, è costata solo duemila vite. E che dire del posto occupato da Beirut nell’antichità? Nel 551 D. C., un terremoto colpì Berito, sede della flotta imperiale mediterranea dell’Est, che distrusse la città intera, uccidendo secondo le statistiche dell’epoca 30.000 persone. Si possono ancora vedere le colonne romane là dove sono cadute, prostrate oggi, a un chilometro scarso dal luogo dell’esplosione. Potremmo anche prendere amaramente nota della follia degli antenati del Libano. Quando la marea si ritirò, camminarono sul fondo del mare e saccheggiarono le navi affondate – solo per essere investiti dal successivo tsunami.

Ma può una qualsiasi nazione moderna – e uso il termine “moderno” consapevolmente nel caso del Libano – ristabilirsi in una combinazione così fetida di sofferenza? Anche se risparmiata – finora – dalla morte di massa a causa del Covid-19, il Libano affronta una pestilenza con pietosi mezzi di soccorso.

Le sue banche hanno rubato i risparmi alla sua gente, il suo governo dà prova di non essere degno del suo nome, nonché dei suoi elettori. Khalil Gibran, il più caustico dei suoi poeti, ci esorta a “compatire la nazione il cui uomo di stato è una volpe, il cui filosofo è un giocoliere e la cui arte è l’arte del rattoppare e dell’imitare”.

Ora i libanesi chi potranno imitare? Chi sceglierà le prossime volpi? Gli eserciti hanno una stanca reputazione di calzare le scarpe su misura dei potentati arabi; nella sua storia il Libano ha provato questa strada una volta, con risultati dubbi.

Oggi siamo incoraggiati a considerare la mostruosa esplosione come una tragedia nazionale – e perciò degna di un “giorno di lutto”, qualsiasi cosa questo voglia dire – anche se ho notato che, tra coloro che ci hanno chiamato in Libano in seguito, alcune persone hanno osservato che il luogo dell’esplosione, nonché gran parte del danno, sembrava essere nel settore cristiano di Beirut. Uomini e donne di ogni fede sono morti ieri. Ma questo sarà un orrore speciale per una delle più grandi minoranze del Libano.

In passato, dopo numerose guerre, il mondo – gli Stati Uniti, la Francia, la NATO, l’UE, persino l’Iran – ha sottoscritto di riparare il Libano. Gli americani e i francesi sono stati cacciati dal paese a suon di attentati esplosivi suicidi. Ma come possono gli stranieri ristabilire una nazione che sembra essere irrecuperabile? 

C’è un’opacità circa il paese, una mancanza di responsabilità politica che è abbastanza endemica da diventare di moda. Non uno dei maggiori assassinii politici in Libano – di presidenti, di primi ministri o ex primi ministri, di membri del governo o di partiti politici – è mai, nella sua Storia, stato risolto.

Ecco, dunque, una delle nazioni più istruite della regione, con la gente tra la più dotata e coraggiosa – e generosa e benevola – favorita dalla neve e le montagne, dalle rovine romane, da cibi raffinati , dall’intelletto e da una Storia millenaria. Eppure non riesce a gestire la propria valuta, a fornire la sua energia elettrica, a curare i suoi malati o a proteggere la sua popolazione. Com’è possibile che 2.700 tonnellate di nitrato di ammonio abbiano potuto essere immagazzinate in un edificio malmesso per così tanti anni, dopo essere stato rimosso da una nave moldava in viaggio verso il Mozambico nel 2014, senza che coloro che hanno deciso di lasciare questo materiale orribile nel centro della loro capitale abbiano preso nessuna misura di sicurezza? 

Tutto quello che ci è rimasto è l’inferno di cristallo e la sua cancerogena onda d’urto bianca, seguita dalla seconda nuvola a forma di fungo.

Questo è il sostituto di Khalil Gibran, il post scriptum di tutte le guerre. Contiene il vuoto di paura che affligge tutti coloro che vivono nel Medio Oriente. E, brevemente e spaventosamente, il mondo lo ha visto.