Biden ha vinto, ma la partita è ancora tutta da giocare

10 / 11 / 2020

È Joe Biden il nuovo presidente degli Stati Uniti. Dopo giorni di conteggi e polemiche, nel pieno di una crisi sanitaria che negli USA ha causato oltre 230.000 morti per Covid-19, le elezioni presidenziali 2020 si sono profilate come uno degli eventi catalizzatori dell’attenzione pubblica nazionale e mondiale.

Dopo quattro anni che hanno visto spadroneggiare Trump in una delle presidenze più controverse nella storia degli USA, nel mezzo di una pandemia che ha scatenato una crisi economica senza precedenti e acuito condizioni di precarietà e ineguaglianza sociale in maniera drammatica, l’elezione di Biden è stata salutata da larghe porzioni dell’establishment e della popolazione statunitense con sollievo e giubilo. Nel primo discorso pubblico dopo la conferma della sua elezione, Biden ha fatto appello all’unità nazionale, si è detto Presidente di un paese dove non esistono “stati blu e stati rossi”, un democratico che saprà interloquire e rappresentare anche gli interessi degli elettori repubblicani; come a suggellare una corsa alla Casa Bianca che lo ha visto farsi portavoce della retorica di un “risanamento delle ferite” dopo anni in cui il populismo sovranista di Trump ha calcato il solco della spaccatura “originaria” dell’identità -anche politica- americana.

Confermata e inoppugnabile, la vittoria di Biden si proclama con uno scarto netto di più di cinque milioni di voti, in una tornata elettorale che ha visto un’affluenza senza precedenti nella storia degli USA. Il tentativo di Trump di osteggiare apertamente la vittoria dell’avversario appellandosi al ricorso alla Corte Suprema e al riconteggio delle schede, è stato salutato dal grosso del partito Repubblicano con tiepidi cenni. Seppur figura controversa e ora per la prima volta perdente, Trump ha ottenuto 70 milioni di voti e lascia all’interno del partito un vuoto che apre la strada a diverse incognite sul futuro del GOP.

Nel frattempo, le dichiarazioni di Biden chiaramente puntano a costruire l’immagine di un leader capace di ricucire il divario profondo che ancora scuote il Paese, un divario ideologico e socioculturale che affonda le radici nelle sue ragioni costituenti e che negli ultimi mesi si è acuito in maniera drammatica, complice la pandemia, la crisi economica, le inuguaglianze sociali crescenti. Una sutura, però, che a differenza del centrismo liberal-progressista che ha caratterizzato la sua vicepresidenza e l’amministrazione Obama, questa volta porta con sé la responsabilità di farsi carico di quell’opinione pubblica che ha appoggiato con largo consenso mesi carichi di proteste al sapore di riformismo radicale e abolizionista.

La scelta della combo Biden-Harris nella corsa alla presidenza illumina su alcuni degli aspetti più peculiari che hanno caratterizzato i cambiamenti sociali degli ultimi anni, che hanno visto il Partito Democratico rivedere gran parte delle scelte che gli sono costate la sconfitta di Hillary Clinton alla scorsa tornata, in gran parte dovute all’incapacità di leggere le necessità del proprio elettorato.

Biden si è presentato come un candidato dai tratti liberal-progressisti vicino però anche alla sensibilità Repubblicana: un uomo che al contempo ha ricordato gli anni fintamente placidi e rassicuranti dell’era Obama mentre cercava, durante i mesi della campagna elettorale, di ricomporre quei segmenti di elettorato bianco, prevalentemente maschio, preponderante nelle zone industriali e post-industriali del Nord – la cosiddetta Rust Belt- che avevano consacrato Trump presidente nel 2016 proprio in virtù di un senso di risentimento e spaesamento per la mancanza di una figura politica in cui riconoscersi. Seppure il tentativo non sia perfettamente riuscito – Michigan, Wisconsin e Pennsylvania hanno virato verso il Partito Democratico, ma Biden non ha spostato la preferenza dei potenziali “Biden republicans”—è anche vero che Biden si è cucito addosso l’immagine di un uomo capace di suscitare simpatie entro un ampio spettro di consenso, da sinistra a destra, sempre in bilico tra trasversalità e opportunismo politico.

Una strategia che in maniera speculare vede Kamala Harris, neo-eletta vice-presidente, configurarsi invece come l’anello di congiunzione tra l’establishment da cui proviene e la fetta di elettorato più progressista, meticcia e queer delle frange democratiche. Harris è la prima donna, per di più nera -di origini jamaicane e asiatiche-- a ricoprire l’incarico alla vice-presidenza, in un contesto, quello del Partito Democratico, che negli ultimi quattro anni ha dovuto fare i conti con il protagonismo crescente e il consenso massificato con cui le donne, le soggettività queer e le minoranze sono arrivate a coprire posizioni di rilievo per la prima volta nella storia del partito. Harris ha strizzato l’occhio proprio a loro, quando ieri ha salutato le masse giubilanti in un giacchino arcobaleno glitterato. Ma da ex-Procuratrice distrettuale e fervida sostenitrice delle misure law and order che hanno riempito le carceri durante l’esplosione del fenomeno dell’incarcerazione di massa, Harris paga il pegno di avere un debito altissimo con chi le ha permesso di vincere a questa tornata. Le minoranze afro-americane e latine, le popolazioni dei ghetti urbani, le frange sociali più povere e marginalizzate degli Stati Uniti ancora portano sulla pelle le cicatrici della deriva militarizzante e securitaria degli anni che l’hanno vista a capo dell’apparato giudiziario repressivo.

Eppure, tanta opinione pubblica ha allineato e suggellato la figura di Harris in cima a quell’ondata di donne, attiviste, di colore, femministe ed ecologiste che hanno catalizzato le speranze della “nazione” dopo le elezioni di mid-term del 2018. Basti pensare a politiche come Alexandra Ocasio-Cortez e Ilhan Omar, o alla popolarità della candidata senatrice della Georgia Stacey Abrams, o in ultimo, all’elezione dell’attivista BLM Cory Bush; figure che si sono fatte strada negli anni in cui la prima ondata di Black Lives Matter usciva da Ferguson per invadere tutto il Paese e scegliere di usare anche la carta elettorale, in cui una nuova ondata di movimenti femministi esplodeva anche grazie al #metoo, in cui gruppi antifa in tutta la nazione si scontravano con le neonate milizie di estrema-destra appoggiate dallo stesso presidente.

È stata la capitalizzazione degli sforzi di molti movimenti che ha avuto il merito di incanalare il desiderio crescente di giustizia economica e sociale attraverso l’utilizzo tattico della rappresentanza politica, soprattutto nel corso delle primarie del partito, costruendo quella base trasversale di elettorato su cui poggiano comodamente oggi Biden ed Harris. Negli ultimi quattro anni, la presenza costante nelle piazze di resistenza alle derive trumpiane, da Charlottesville in poi, ha costruito quella credibilità con cui alcune figure che si sono affacciate per la prima volta alla rappresentanza hanno fatto poi incetta di voti. Il boccone amaro che la componente più a sinistra del partito ha dovuto ingoiare con lo smacco dell’esclusione di Bernie Sanders dalla corsa alla presidenza sarà il banco di prova per un’amministrazione che rischia di deludere le aspettative di cambiamento radicale che da maggio hanno infiammato le piazze di tutti gli USA.

L’ondata irrompente delle proteste Black Lives Matter degli ultimi mesi e la crescente presenza e legittimità con cui hanno risposto le milizie di estrema-destra, avvallata dalle forze di polizia e dallo stesso Trump, parlano di un contesto di polarizzazione crescente dello scontro cui sta rispondendo in questi giorni l’intensificazione di misure repressive ai danni dei manifestanti e delle cellule organizzative: si parla di più di 20.000 arresti avvenuti dallo scorso maggio, che nelle ore precedenti alla tornata elettorale hanno visto attivisti e attiviste di Atlanta e Philadelphia prelevate letteralmente dalle proprie case dalle forze armate.

Non è azzardato pensare che il sospiro di sollievo con cui tanti hanno salutato il risultato delle elezioni si possa trasformare in un vortice di repressione e violenza per chi ha riempito le piazze gli scorsi mesi, il tutto mentre l’insediamento democratico tenterà di placare gli animi e pacificare il malcontento facendo leva sul desiderio di “normalità” con cui il ceto medio è accorso alle urne la scorsa settimana. Eppure, il risveglio americano di Black Lives Matter continua ad avere strascichi che sarà difficile estirpare. L’ordine economico-politico squisitamente neoliberale che accompagna le carriere e gli alti appoggi di questa neo-presidenza è una ricetta ben nota, e come ha sottolineato Ocasio-Cortez, è un’eredità pesante che pesa sulle spalle delle precedenti amministrazioni Democratiche, responsabili del risentimento e della delusione che hanno sì consacrato Trump alla vittoria quattro anni fa, ma che aleggiano sui ceti impoveriti e razzializzati degli Stati Uniti da troppo tempo, con il rischio concreto di incorrere negli errori del passato.

Infine, sarebbe un grave errore tentare di leggere le contraddizioni di classe apertesi negli Stati Uniti, e le mobilitazioni che ne sono espressione, solo alla stregua di un cambio di colore della presidenza. Le manifestazioni di Portland, Seattle e altre città americane nei giorni immediatamente successivi alle elezioni sono lo specchio di un Paese in perenne subbuglio, che non può accontentarsi, dove stanno nascendo nuovi sociali che è lecito pensare non si esauriscano nella sfera del "politico".

Insomma Biden ha vinto, ma la partita resta ancora tutta da giocare in una contesa che va ben oltre le elezioni.