L’arrivo in massa di migliaia di migranti onduregni – a cui, lungo il cammino, se ne sono aggiunti molti altri provenienti da El Salvador e dal Guatemala – ha messo alla prova il sistema di accoglienza messicano e ha riportato l’attenzione sul tema della migrazione tra centro e nord America.
Da una parte, il presidente uscente Enrique Peña Nieto ha
condannato il loro ingresso in forma “irregolare e violenta”, affermando che
per loro non ci sarà alcuna forma di sostegno e promuovendo invece accordi con
gli altri paesi del Centro America per finanziare forme di ritorno assistito
nei rispettivi paesi d’origine.
Sulla scia delle sue dichiarazioni si allineano i commenti di carattere
razzista e xenofobo che si possono trovare nei social network da parte di alcuni
cittadini messicani che accusano i centroamericani di essere la vera causa
della disoccupazione, della povertà e della crisi, economica e sociale, che la
società messicana sta attraversando. Parole molto simili a quelle espresse da
Donald Trump nei suoi ultimi tweet, così come in tutte le esternazioni da lui
compiute negli ultimi anni nei confronti dei messicani che si trovano negli Stati
Uniti. Sembra paradossale, se si pensa alle richieste di tutela nei confronti
delle migliaia di migranti messicani presenti in suolo statunitense, ma
purtroppo gli abusi e le violenze perpetrate sui migranti centroamericani sono
una testimonianza chiara e tangibile di come odio, razzismo e xenofobia
facciano parte del modo di gestire la questione migratoria da parte delle autorità
messicane.
Fortunatamente l’altra faccia del Messico, quella solidale e ribelle, si è organizzata per accogliere al meglio le migliaia di migranti.
Gruppi di civili e membri di organizzazioni umanitarie hanno iniziato fin da subito una raccolta di cibo e altri beni di prima necessità per soddisfare al meglio le loro esigenze. Si cerca di dare priorità alle numerose donne e ai bambini, ma non è facile raggiungere tutti. Molti sono ancora bloccati lungo il ponte che collega il Guatemala con il Messico, a Tecún Umán, aggravando così una situazione già di per sé incerta e vulnerabile. Le temperature elevate, la scarsità di cibo e acqua, la stanchezza del lungo viaggio stanno mettendo dura prova la continuazione del cammino verso nord. A questo si aggiunge il timore di essere deportati qualora si scelga di cedere alle autorità messicane che richiedono di legalizzare la loro situazione migratoria, condizione – secondo le autorità stesse - necessaria per continuare. Oppure, cosa che può rivelarsi altrettanto pericolosa, è l’affidarsi ai cosiddetti “coyotes”, trafficanti di esseri umani, che si propongono come accompagnatori ma che molto spesso sono collusi con la criminalità organizzata.
Nonostante le avversità moltissimi migranti ormai hanno invaso le strade e le piazze delle città messicane. Al grido di «¡Los migrantes no somos criminales, somos trabajadores internacionales!» hanno raggiunto la città di Tapachula, a circa 50 km dal confine meridionale, e certamente non si fermeranno qui.
In vista di cosa accadrà nelle giornate di novembre, in cui si terrà il Forum Sociale delle Migrazioni a Città del Messico, è ormai evidente che non si possa più trattare la tematica migratoria con misure emergenziali e tanto meno continuare a sopportate le minacce e le ingerenze da parte del governo di Donald Trump. In una recente dichiarazione il presidente eletto Andrés Manuel López Obrador, il cui mandato entrerà in vigore il 1 dicembre, ha affermato di voler concedere dei permessi di lavoro a quei migranti centroamericani che vorranno lavorare in Messico.
Non è la prima carovana di migranti nata spontaneamente negli ultimi mesi. Basta ricordare quella dell’aprile scorso in cui centinaia di migranti centroamericani hanno attraversato il paese da sud a nord denunciando la loro condizione e chiedendo a gran voce di essere ascoltati. Una dimostrazione di autorganizzazione, coraggio e consapevolezza della forza che può nascere dalla moltitudine di corpi in movimento che speriamo possa accompagnare anche il viaggio di quest’ultima carovana.
Infine, proprio ieri è partita un’altra carovana di circa un migliaio di persone da Tegucigalpa ed è già arrivata in Guatemala e che rischia di produrre un vero e proprio esodo se la situazione in Honduras non si stabilizza e il presidente Juan Orlando Hernández non si dimette.