Borghi sfrattati

La miniera di carbone di Hambach, in Renania, continua a crescere “ingoiando” foreste e paesi. Solo un gruppo di ambientalisti prova a resistere. E le escavatrici erodono l’immagine della Germania rinnovabile

8 / 11 / 2017

Domenica 5 novembre quasi 5.000 persone hanno bloccato il sito minerario di Hambach, un eco-mostro a cielo aperto che ha completamente devastato un’area boschiva ed agricola e rifornisce limitrofe centrali a carbone che emettono una quantità elevatissima di CO2. In questo articolo, scritto da Francesco Panie per lanuovaecologia.it, vengono messi in luce, grazie alla voce di alcuni protagonisti, gli effetti sociali ed ambientali della miniera, le contraddizioni aperte dell’equazione carbone-lavoro, le tante forme di resistenza che avvengono quotidianamente all’interno dell’area.

Qui sotto hanno trovato il carbone – spiega l’uomo, battendo il piede sull’asfalto di una strada deserta – Per questo dobbiamo andarcene via: vogliono radere al suolo le case». Manheim è un paese di 1.600 abitanti, oggi praticamente disabitato, con l’erba che cresce incolta nei giardini e ai bordi delle vie. Nel 2022 verrà ingoiato dall’ampliamento della Tagebau Hambach, la miniera a cielo aperto più grande d’Europa. Siamo in Renania settentrionale-Vestfalia, nell’estremo ovest della Germania, una delle regioni più ricche di lignite del Vecchio continente. Da queste parti la gente è abituata a perdere la casa quando le compagnie scoprono un deposito di “carbone marrone”. Il Piano lignite del Land prevede lo spostamento di tutti i paesi che si trovano nelle aree interessate dagli scavi. La Germania si affida a questa fonte per un quarto della produzione elettrica, quanto basta perché la ragion di Stato abbia la precedenza su quella delle comunità locali.

La miniera di Hambach, aperta nel 1978 da Rwe, la seconda compagnia energetica nazionale, copre oggi 45 chilometri quadrati. Nel 2040, al termine delle operazioni, avrà coinvolto un’area di 85. A vederla dal vivo manca il fiato. Sembra di trovarsi ai margini della terra di Mordor, sull’orlo di una conca morta dalle dimensioni semplicemente assurde. In lontananza, lungo la linea dell’orizzonte, salgono i pennacchi di fumo delle centrali termoelettriche, che si fondono con le nuvole. Dal dopoguerra ad oggi, questa e altre due cave più piccole nella regione – Inden e Garzweiler – hanno costretto 35mila persone a fare i bagagli e trasferirsi in nuovi borghi costruiti da zero. Nella pianura, che si estende a perdita d’occhio, dominano le coltivazioni intensive di mais e barbabietola da zucchero. Con la crescita delle miniere, anche molti agricoltori hanno pagato il prezzo dello sfratto. «Le persone non vengono lasciate a se stesse, ma ricevono compensazioni adeguate e contribuiscono a pianificare il loro reinsediamento – chiarisce Guido Steffen, addetto stampa di Rwe – Si tratta di una procedura partecipata prevista dalla legge». I gruppi ambientalisti contestano il fatto che il Comitato lignite, deputato a prendere le decisioni in materia, sia composto da esponenti delle imprese e delle autorità locali, senza la rappresentanza di organizzazioni della società civile. Dal di fuori, diventa difficile scalfire la forte sinergia fra industria e politica. Il primo ministro del Nord Reno-Vestfalia, la socialdemocratica Hannelore Kraft, ha annunciato che la lignite sarà necessaria anche oltre il 2030, dichiarazione definita da Rwe “fondamentale per continuare ad operare nella miniera sul lungo periodo”.

Voragine da guinness
I piani per lo sfruttamento del sito di Hambach prevedono altri 25 anni di attività e poi un programma di ripristino ambientale. L’idea per riqualificare il territorio è ambiziosa: deviare parte del Reno di 50 chilometri e riempire la fossa con 4 miliardi di metri cubi d’acqua entro fine secolo. La promessa è di trasformare questo squarcio in un punto di attrazione turistica. Intanto però, l’azienda punta a realizzare obiettivi più concreti: cavare dal “grande buco”, come lo chiamano da queste parti, 2,5 miliardi di tonnellate di lignite. Per farlo utilizza otto escavatrici a ruota di tazze, macchine movimento terra dalle dimensioni impressionanti. Tra queste spicca la Bagger 293, entrata nel Guinness dei primati come veicolo terrestre più grande mai costruito. È un gingillo da 100 milioni di euro, alto 96 metri e pesante 14.000 tonnellate. Il braccio, lungo 225 metri, è sormontato da una ruota di 21 metri di diametro, con 20 tazze capaci di caricare 7 tonnellate di materiale ciascuna. Dal 1995 questo immane dinosauro di ferro rode senza sosta i bordi terrazzati della miniera. Gli impatti delle operazioni sono molteplici. Sotto la miniera si estende una falda acquifera, costantemente prosciugata per evitare allagamenti nell’area di estrazione, profonda quasi 400 metri. L’attività delle Bagger, inoltre, ha sollevato per anni quantità di particolato superiori ai limiti Ue. Le centrali elettriche circostanti, che la miniera rifornisce costantemente tramite una ferrovia dedicata, producono emissioni nocive di carbonio e di mercurio. L’industria del carbone è un sistema complesso, una filiera di attività interconnesse – scavo, trasporto, e combustione – controllata da pochi soggetti. Tra questi troneggia Rwe: il primo emettitore di CO2 d’Europa, secondo gli ambientalisti di Bund.

Schiavi della lignite
Eppure, nell’immaginario pubblico la Germania è il paese che guida le politiche comunitarie in ogni settore, quello climatico incluso. Giornali e tv si sono profusi in lodi sperticate per l’Energiewende, il piano per la transizione energetica lanciato dal governo nel 2010. La realtà però dice che la Germania, oggi, è il primo produttore europeo di carbone e l’ottavo al mondo. Tra lignite e antracite, quest’ultima quasi tutta d’importazione, la “pietra nera” copre circa il 42% della produzione elettrica nazionale. Il carbone è la fonte energetica che più contribuisce all’effetto serra, quella che la maggior parte del mondo sta tentando di sostituire, ma per Berlino è particolarmente difficile. Sull’onda di Fukushima, il governo ha deciso di abbandonare l’energia nucleare nel 2022, con gran sollievo del settore minerario in crisi. Le grandi utility hanno ripreso vigore, riuscendo l’anno scorso ad evitare una tassa che le avrebbe costrette a chiudere gli impianti più vecchi e sporchi. Al suo posto hanno ottenuto un sussidio: lo Stato versa loro una generosa buona uscita per accompagnarli alla “pensione”.
Nella zona delle miniere però questi discorsi interessano poco. La maggior parte delle persone non sa neppure che il loro denaro finisce in tasca ad aziende che li ripagano con polveri mortali, drenaggio delle falde acquifere e inquinamento acustico. Salvatore, quarantacinque anni, nato in Germania da immigrati di Potenza, ha una gelateria nella cittadina di Niederzier, 13mila abitanti, non lontano dal bordo occidentale del “grande buco”. Parla un italiano dalla forte inflessione lucana ed è convinto che l’impatto economico dell’estrazione di lignite sia positivo. «Per me la miniera è un bene. Molta gente lavora lì. Quando finiranno di scavare non so come andrà l’economia di questi paesi». Poi ci pensa un istante e ride, liquidando la questione con un gesto della mano: «Ma che importa, io fra trent’anni sarò morto». L’equazione carbone-lavoro è ancora valida in una regione caratterizzata non soltanto da città come Colonia, Düsseldorf e Bonn, ma punteggiata di piccoli borghi identici uno all’altro, con le stesse strade asfaltate in maniera impeccabile, le stesse case basse con i tetti marroni e il prato tanto perfetto da sembrare finto, le stesse tendine merlettate alle finestre con gli stessi vasi di orchidee sul davanzale. In questi paesi fotocopiati vivono famiglie della classe media, che lavano belle auto la domenica e si scambiano saluti mentre portano a spasso il cane: non esattamente il tipo di umanità che vede di buon occhio le “stravaganze” degli ambientalisti.

Liberi e selvatici
«È difficile coinvolgere le comunità locali in azioni di protesta, molte persone credono che la miniera sia fonte di benessere». Hazel è un’attivista che dal 2012 vive a due passi dalla voragine, in quel che resta della foresta di Hambach. Lei e una ventina di amici, quattro anni fa, hanno occupato questo fazzoletto di selva millenaria, ridotta al lumicino negli ultimi trent’anni dall’avanzata delle ruspe. Un tempo arrivava a coprire 55 chilometri quadrati tra Jülich, nel distretto di Düren, ed Elsdorf, nel distretto di Rhine-Erft. Oggi ne restano appena 7. Ogni anno, tra l’inizio di ottobre e la fine di febbraio, durante la “stagione del taglio”, Rwe abbatte una striscia alberata lunga 5 chilometri e profonda fino a 400 metri. Sotto i colpi delle motoseghe cadono carpine e querce antichissime, tutelate dalle direttive europee soltanto sulla carta. Le 140 specie animali protette che abitano la foresta soffrono per la perdita del loro habitat. I tentativi di far rispettare la legge non sono mancati. Ma le vie legali, qui, non hanno mai avuto successo: le associazioni ambientaliste hanno perso su tutta la linea. Sulla miniera di Hambach, fino ad oggi, non è mai stata realizzata nemmeno una valutazione di impatto ambientale.
L’unica resistenza rimasta in piedi è l’occupazione di questo gruppo di attivisti anarchici, provenienti dagli spazi occupati della Germania e di altri Paesi. Ricevono viveri e beni di prima necessità da alcuni residenti della zona, che simpatizzano con la loro causa. Periodicamente, i rifornimenti arrivano in auto tramite una rete di carraie erbose che delimitano i campi. Su uno di essi, donato da un privato, sorge il campo base degli attivisti, proprio a ridosso della boscaglia. Qui trovano posto una mezza dozzina di catapecchie in legno e terra e alcune roulottes, buone ormai solo per lo sfasciacarrozze. La cucina è divisa tra vegan e freegan, e c’è un freeshop da cui rifornirsi di vestiti usati. Nel tempo gli occupanti hanno affinato diverse tecniche di lotta grazie alle frequenti visite dei loro compagni francesi, greci, italiani, spagnoli o inglesi. Ora sanno come costruire case sugli alberi a venti metri d’altezza, incatenarsi alle rotaie per bloccare i treni che trasportano il carbone o sabotarne la linea elettrica. Con la lametta o la colla istantanea hanno compromesso i polpastrelli, per impedire alle forze dell’ordine di prendergli le impronte. Sono disposti a tutto per ostacolare l’avanzata della miniera e difendere quell’angolo di natura. Hanno resistito a due sgomberi, nel 2012 e nel 2014, poi la compagnia ha deciso di lasciarli stare. Dalle voci che girano, tuttavia, quest’anno lo scontro potrebbe infiammarsi nuovamente. Tutti sono convinti che la polizia tenterà di cacciarli durante la stagione del taglio, perché alcune case sugli alberi si trovano all’interno dell’area che Rwe ha in programma di disboscare da qui a marzo. Nessuno dei ragazzi freme per l’eccitazione: potrebbe essere la fine per la loro vita selvatica, e la miniera dei record avrebbe spazzato via anche l’ultima opposizione. È un’eventualità cui gli attivisti non vogliono pensare. In questi anni hanno vissuto senza acqua corrente e senza elettricità in baracche di legno, tende da campeggio e case tra le fronde. Hanno affrontato il gelo invernale, i morsi delle zecche e le botte degli agenti. Come cambiare vita dopo una simile esperienza? È possibile rientrare a cuor leggero nella società dei consumi?
«Penso che lavorare sia una perdita di tempo – dice Hazel un mattino, mentre depone generosamente un trito d’aglio su una fetta di pane e olio – Quello che facciamo qui è molto più significativo. Quando sarò anziana forse avrò bisogno di guadagnare il necessario per pagarmi l’assicurazione sanitaria, ma adesso non mi sembra il caso».