Bosnia, contro la corruzione, la disoccupazione, la privatizzazione

La lotta unisce le etnie ed attraversa i confini nazionali della ex Jugoslavia

12 / 2 / 2014

Abbiamo scritto che domenica passata, in Bosnia-Herzegovina, è stata una giornata di assemblee, di confronto, di bilancio sul se, come, quando e perché continuare le mobilitazioni e la lotta per un effettivo cambiamento nel Paese, con la definizione di piattaforme per orientare le iniziative e per ottenere gli obiettivi reclamati dai manifestanti: basta corruzione, basta disoccupazione, basta privatizzazioni.

La corruzione è l’elemento cardine dell’indignazione transnazionale dei paesi dell’est, come dell’ovest dell’Europa, in Bosnia-Herzegovina possiamo indicare uno degli snodi che hanno dato la stura al diffondersi del clientelismo, della trasformazione dello Stato in una enorme macchina che distribuisce denari e favori: la struttura istituzionale dello stato, così come è uscita dagli accordi di Dayton, firmati a Washington nel 1995 per mettere fine al conflitto e che hanno creato la Bosnia-Erzegovina di oggi: un'elefantica macchina amministrativo-burocratica che premia la divisione etnica invece di appianarla e che spacca il Paese in modo tale da rendere improprio chiamarlo una nazione. Difatti, lo stesso artefice degli accordi, Richard Holbrooke, disse nel 2005 che non si aspettava che il grossolano sistema creato a Dayton sarebbe durato così tanto.

Per capirci, il sistema politico della Bosnia-Erzegovina permette a decine di partiti di ottenere finanziamenti statali e l'immensa macchina amministrativa, che comprende due entità, una presidenza formata da tre persone, dieci cantoni, decine e decine di comuni, ha reso di fatto il governo il più grande datore di lavoro nel Paese, in una continuo spreco di denaro pubblico che pare non avere mai fine.

La popolazione della Bosnia-Erzegovina, tutta, sembra unita nelle proprie richieste, sia pur con un minore entusiasmo e ppartecipazione nella Repubblica Srpska, per la prima volta, le divisioni tra le tre etnie che compongono il Paese (serba, croata e bosgnacca, cioè i bosniaci musulmani), sembrano appianate, tant'è che a Tuzla i lavoratori hanno scritto sui muri "Morte al nazionalismo" e a Belgrado, in Serbia, è persino stata organizzata una manifestazione di solidarietà alla Bosnia a cui hanno partecipato centinaia di persone.

Proponiamo qui di seguito ampi stralci da un articolo di Milena Pavlović da quattrocentoquattro.com

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Il movimento di rivolta, che già alcuni chiamano Primavera bosniaca, domenica ha reso noti i punti di un radicale programma di cambiamento: a Tuzla con la Dichiarazione dei lavoratori e dei cittadini del Cantone di Tuzla come a Sarajevo e a Bihac.
Le proteste anti-privatizzazione che incendiano la Bosnia, trasformatesi velocemente in insurrezione sociale, si fanno largo in un Paese il cui attuale tasso di disoccupazione sfiora il 40% (di cui quello giovanile il 60%) aprendo spazi di rivolta che coinvolgono in maniera uniforme operai, giovani e pensionati. Gli eventi di questi giorni sono il rigetto incendiario delle “politiche di transizione” che da circa quindici anni investono la Bosnia e l’insieme dei Paesi ex-jugoslavi. Le rivolte locali, nate come focolai spontanei, sono spia di un malessere balcanico diffuso: dal 2001 a oggi in Serbia sono state privatizzate circa 3000 imprese, 2000 delle quali oggi sono distrutte; non si tratta di un fenomeno isolato ma di scelte politico economiche di apertura agli investimenti privati che accomunano senza eccezioni le transizioni balcaniche, implicando una radicale trasformazione del tessuto sociale ed economico dei Paesi ex-jugoslavi.

La risposta delle rivolte bosniache alla crisi non lascia incolume la classe politica ritenuta inadeguata e corrotta, oltre che responsabile dell’inerzia burocratico-amministrativa e della stagnazione economica del Paese. Attraverso una presa di controllo dal basso, i manifestanti vogliono mettere in atto processi di controllo popolare delle compagnie locali, proponendo un annullamento dei contratti di privatizzazione della maggior parte delle imprese presenti sul territorio; per fare questo la rottura nei confronti di un sistema politico, erede delle politiche nazionaliste degli anni ’90, non solo è radicale ma si pone come una delle anime principali di una protesta scevra da ogni linguaggio etnico ed etnicizzante. E sono proprio i politici che, nel tentativo di frammentare la protesta dall’interno, sguinzagliano i media locali e nazionali parlando di hooligans infiltrati nel movimento, ingigantendo in maniera spropositata i danni dell’incendio a una piccola parte degli Archivi nazionali di Sarajevo. E mentre Valentin Inzko, Alto Rappresentante per la BiH (figura istituita con gli Accordi di Dayton), dichiara: «If the situation escalades, we have to think about sending EU troops. But not yet», e la classe politica bosniaca, pervasa dalla paura dell’estensione e del rafforzamento della protesta (anche oltre i suoi confini nazionali) condanna e associa i tumulti alle scene di guerra del ’92, cercando disperatamente di appigliarsi alle divisioni e alla cantonizzazione etnica che ha tenuto la Bosnia sotto una calma apparente per 20 anni, i manifestanti bruciano le sedi dei partiti nazionalisti e ricoprono i muri delle loro città con «Smrt nacionalizmu» (Morte al nazionalismo!) intonando «Novo vrijeme dolazi» (Un nuovo tempo arriva).

Un’amica bosniaca mi racconta di temere che la violenza delle proteste possa regalare a qualcuno la possibilità di parlare dei “soliti selvaggi balcanici”. Per anni abbiamo letto e sentito parlare di una guerra atavica narrata come la svolta prevedibile di una pace fittizia imposta a dei popoli rappresentati come naturalmente violenti. Ancora oggi, queste proteste faticano a trovare voce in un’Europa in cui i Balcani sono ancora considerati “il suo alter ego” lontano, oscuro ed orientale (Maria Todorova in Imagining Balkans, ha scritto straordinariamente bene a riguardo). Qualcosa di diverso, tuttavia, capovolge questa interpretazione essenzialista delle guerre in ex-Jugoslavia degli anni ’90: il rigetto delle politiche nazionaliste e il ritorno di una collaborazione tra movimenti di lotta contro la crisi che supera le frontiere territoriali, considerate per lungo tempo insormontabili. Bandiere di movimenti antifascisti e anticapitalisti sventolavano ieri a Belgrado in una piazza che urlava «Viva la lotta dei popoli dei Balcani» in sostegno alla BiH, mentre i croati annunciano manifestazioni nella settimana prossima.

Qualcosa di nuovo è germogliato in questi giorni. Le rivolte bosniache, nate da una protesta di 200 operai, meno di una settimana fa, esigono una liberazione dagli stereotipi dell’immaginazione balcanica, scrostano le immagini della guerra e impongono uno nuovo spostamento di sguardo verso l’Europa dell’Est non come un Far West da conquistare, ma come spazio di lotta a cui si allineno «Tahrir, Taksim, Konj» [1] nel paradigma di un’Europa senza frontiere che insorge nelle sue periferie e che può essere riscritta al di fuori dei palazzi del potere.

Ampie sintesi degli eventi di questi giorni in BiH le trovate qui: http://balkans.courriers.info/, qui: http://www.balkaninsight.com/en/page/all-balkans-home