Chiusi dentro – La Tunisia nell’era delle rivolte

Da Kasserine i disordini dilagano in tutto il Paese

25 / 1 / 2016

Il movimento di protesta in Tunisia si è evoluto molto rapidamente dalla pubblicazione dell’articolo precedente [1]. Iniziamo ricapitolando gli eventi. Dal 20 gennaio in poi un presidio permanente per il diritto al lavoro e allo sviluppo si è installato davanti alla sede del governatorato di Kasserine e gli scontri si sono susseguiti nel capoluogo e nella regione. Nel villaggio di Feriana un agente di polizia è deceduto durante i disordini. Nel frattempo, sempre a partire da martedì, il movimento di protesta si è esteso in tutto il paese, raggiungendo prima le altre regioni marginali dell’interno e infine anche le città costiere più sviluppate. In diverse regioni, tra cui Kasserine, Jendouba, Beja, Tunisi, Mahdia, i manifestanti hanno fatto irruzione nelle sedi del governatorato. In molte città, negozi e centri commerciali sono stati saccheggiati e posti di polizia presi d’assalto. Nella capitale i cortei di solidarietà in centro durante il giorno si sono alternati a incendi e scontri nei quartieri popolari di Kram, Intilaka, Sidi Hassine, Ettadhamen.

In un tentativo di calmare la situazione, il 20 gennaio il governo ha promesso la creazione di 5000 posti di lavoro e altre misure per lo sviluppo nella regione di Kasserine. Ma gli strateghi dell’esecutivo si sono presto accorti che tale promessa forniva di fatto un incentivo per le altre regioni a sollevarsi e hanno dichiarato che tale misura non riguarda solo Kasserine e che era stato commesso “un errore di comunicazione”. 

Il primo ministro Habib Essid è stato costretto a lasciare prematuramente il Forum di Davos. Il 22 gennaio si è recato in Francia, dove il presidente Hollande gli ha assicurato un piano quinquennale da un miliardo di euro in “sostegno” alla Tunisia. Il giorno stesso il Ministero degli Interni ha indetto il coprifuoco su tutto il territorio nazionale dalle otto di sera alle cinque del mattino e il presidente della repubblica Beji Caid Essebsi ha tenuto un discorso al paese in cui ha dichiarato di comprendere le proteste ma di non accettare gli atti di violenza da parte di “infiltrati”. Durante la notte tra il 22 e il 23 ci sono stati altri scontri, ma nella giornata del 23 le autorità possono permettersi di dichiarare che per ora è tornata una relativa calma (e che sono stati effettuati 123 arresti). Sono però state in parte smentite dal ritorno dei blocchi stradali e dei copertoni in fiamme nella regione di Sidi Bouzid. Rimane tuttora il presidio permanente di fronte al governatorato di Kasserine.Per quanto riguarda la composizione politica del movimento, si è trattato di un’ondata di moti spontanei che però hanno visto anche la partecipazione di soggetti organizzati. Le banlieues popolari di Tunisi sono un bastione degli islamisti più o meno radicali ed è plausibile immaginare che abbiano partecipato ai disordini qui come altrove, senza però poterli dirigere.

Tuttavia un po’ ovunque si vedono militanti di sinistra assumere un ruolo di primo piano. Si tratta soprattutto degli attivisti del sindacato dei disoccupati UDC, il sindacato studentesco UGET, e l’ala sinistra della confederazione sindacale UGTT. Sul piano partitico, le maggioranze di tali gruppi fanno di fatto riferimento al Fronte Popolare, coalizione di partiti Marxisti-Leninisti e nazionalisti arabi. Ci sono poi molti attivisti di ispirazione più libertaria che però non sono organizzati in strutture stabili o di ampia estensione.

La catena di eventi ed i suoi protagonisti non possono che ricordare il gennaio 2011 e sui social network diversi militanti tunisini si sono spinti a parlare di una seconda rivoluzione. Come si sa, il termine ha molteplici significati ma dubito che si assisterà a nulla che meriti di essere designato con esso. Quello che è cambiato dal gennaio 2011 a oggi è il quadro istituzionale. All’epoca l’ondata di rivolta si scontrava con una forma di stato autoritaria e irrigidita su stessa, incapace di adattarsi ai profondi mutamenti economici e sociali che il paese aveva vissuto nel corso dei decenni. Il regime si aggrappava a una sorveglianza poliziesca nelle intenzioni capillare, a un continuo tentativo di controllare la centrale sindacale tramite un’alleanza con la burocrazia di quest’ultima, al relegamento nell’irrilevanza dell’opposizione legale e alla repressione totale di quella reale.

Si può dire che la rivolta si trasformò in rivoluzione (politica e non certo sociale) nel senso che tale forma-stato saltò in pezzi e le istituzioni si ricomposero sulle linee di una democrazia parlamentare, per quanto di qualità inferiore a molte altre. Un fatto è certo, se è vero che numerose democrazie sono ricadute in nuovi autoritarismi, non si è invece mai data rivoluzione in un contesto di democrazia parlamentare, cosa spiegabile con le maggiori capacità di concessione da un lato e cooptazione dall’altro di tale sistema rispetto alle pressioni dal basso. Questo ovviamente non significa che rivoluzioni in paesi “democratici” non potranno accadere in futuro. Anzi, la lenta diffusione della democrazia parlamentare su scala globale sta tagliando al capitale le riserve di paesi a controllo autoritario dei lavoratori in cui poter delocalizzare [2]. Tuttavia le condizioni e i possibili esiti di una rivoluzione in democrazia parlamentare ad oggi non si delineano.

Ora che in Tunisia la democrazia parlamentare è già presente (almeno per ora!), gli ultimi eventi appaiono ancora più nitidamente come “nuda rivolta”, forma di protesta tipica delle fasce più marginali della forza lavoro, quelle che oggi raggruppiamo sotto la categoria di precariato. Il continuo movimento di ingresso ed espulsione dalla forza lavoro – imprevedibile ed eterodiretto –  rende questi lavoratori difficilmente organizzabili in soggetti collettivi stabilmente strutturati e rende la rivolta, con tutti i suoi limiti e “brutture”, l’unica forma di lotta a portata di mano. Resterebbe necessario trovare modalità di inserzione volte a evitare il verificarsi di atti controproducenti e inutili tragedie. La pratica della rivolta accomuna i precari tunisini con quelli di Ferguson e Baltimora, Parigi e Londra. La  differenza con Parigi e Londra è che in Tunisia delle forze progressiste relativamente ben radicate sui territori riescono a far passare slogan esplicitamente politici e a contribuire a dare una certa sostenibilità alla protesta.

La prominenza della rivolta è spiegabile alla luce dell’incapacità del capitalismo globale di assorbire nella forza lavoro stabile un’ampia popolazione in eccesso, relegata a una vita perennemente “anormale”. Negli ultimi decenni si sono rafforzate mutualmente due tendenze contraddittorie. Da un lato il capitale ha incluso nella relazione salariale nuovi eserciti industriali di riserva nei paesi del terzo mondo e soprattutto in Cina. Dall’altro lato, quando lo sviluppo di lotte interne a tale relazione crea spinte ad aumenti salariali assai problematici di fronte alla scarsa profittabilità del manifatturiero, si rafforzano gli incentivi all’automatizzazione, come evidente dai recenti programmi di robotizzazione messi in atto dalle autorità cinesi. Ecco dunque che la popolazione in eccesso viene ricreata tramite la sostituzione di lavoratori con macchine.

Come conferma una bellissima analisi sulle recenti rivolte in Cina, - intitolata significativamente No Way Forward No Way Back: China in the Era of Riots: “Il numero di proletari in eccesso non sta semplicemente aumentando in termini assoluti (anche se ciò resta possibile), si sta anche espandendo in generale, nel senso che le caratteristiche tradizionalmente associate alla popolazione in eccesso (informalità, precarietà, illegalità) sono diventate relativamente ‘normali’ anche tra la popolazione occupata nel suo complesso” [3]. La centralità strutturale della precarietà spiega perché in Tunisia come in Cina (su una scala moltiplicata centinaia di volte), rivolte nella sfera della riproduzione (quartieri popolari, spazi del tempo libero) coesistano regolarmente con scioperi interni alla relazione di produzione. Una differenza cruciale è che la Cina è la “fabbrica del pianeta” mentre la Tunisia no, di conseguenza le potenzialità per una qualche forma di superamento in avanti dell’impasse della rivolta sono ovviamente più elevate in Cina.

Nel frattempo la sfida per la sinistra tunisina è quella di riuscire a trarre qualche conquista dalla fiammata di collera, impresa non facile data l’instabilità strutturale del movimento. Il Fronte Popolare, che ha sostenuto le proteste seppur condannando le violenze, potrà guadagnare qualcosa in termini elettorali, superando il 7% delle ultime elezioni. Tuttavia anche nel caso auspicabile ma altamente improbabile di un governo a guida FP, si sa che gran parte del potere non sta nel parlamento – oggi ancora meno e in Tunisia ancora meno. Il presidio permanente di Kasserine, se non è una novità nel repertorio tunisino di contestazione, costituisce una pratica in grado di dare una sostenibilità temporale alla mobilitazione sul territorio. Una generalizzazione dei presidi permanenti alle altre regioni sarebbe senz’altro uno sviluppo positivo, nell’ottica di un estendersi spaziale e temporale di forme di auto-organizzazione. Intanto non si può che ammirare la determinazione di coloro che, in condizioni tanto avverse, non si rassegnano a restare chiusi dentro a un sistema incapace di far fronte ai loro bisogni.

*** Lorenzo “Fe” Feltrin, di Treviso, è dottorando in scienze politiche alla University of Warwick, dove si occupa di sindacati e movimenti sociali in Marocco e Tunisia. Ha precedentemente collaborato con la casa editrice milanese Agenzia X, per la quale ha pubblicato il libro Londra Zero Zero sulle subculture anni zero della capitale inglese.

[1] http://www.globalproject.info/it/mondi/e-ancora-rivolta-in-tunisia-solidarieta-alle-lotte-di-kasserine/19802

[2] Negli ultimi anni ben duemila investitori hanno abbandonato la Tunisia per il Marocco, effetto che per il manifatturiero è causato, più che dagli attacchi terroristici, dall’ondata di scioperi post-rivoluzione, che lo stato tunisino non ha più potuto arginare con i precedenti metodi.

[3] http://chuangcn.org/journal/one/no-way-forward-no-way-back/