Cina - Gli scenari del post Congresso del PCC

23 / 1 / 2013

Con Angela Pascucci apriamo una collaborazione all'interno dell'Osservatorio Cina dedicata ad approfondire le contraddizioni, le trasformazioni, i conflitti della realtà cinese. Uno sguardo a 360 gradi dentro una realtà che gioca un ruolo fondamentale nella geopolitica globale.

Nella prima intervista disegnamo a grandi tratti con Angela gli scenari e i temi aperti nella Cina post diciottesimo Congresso del Partito Comunista Cinese.


Per cominciare vorrei partire da due notizie molto interessanti degli ultimi giorni.

La prima è che dopo 12 anni in cui non lo faceva il governo cinese ha ricominciato a dare i dati sulle disuguaglianze di reddito. Che cosa è venuto fuori? E' emerso che le disuguaglianze di reddito sono a livello preoccupante perché superano la soglia 0,4 del coefficiente di Gini, ritenuto dall’Onu un livello di allarme. Per approfondire la notizia spieghiamo brevemente che il coefficiente di Gini misura le disparità di reddito in un paese e va da uno a zero: tanto più ci si avvicina allo zero, tanto più la situazione è equilibrata fino a tendere allo zero che è utopisticamente “nessuna differenza”, mentre più si alza verso l'uno più la situazione diventa pesante e squilibrata.

Secondo i dati del governo cinese la Cina nel 2012 avrebbe registrato un coefficiente dello 0,474, più basso di quello del 2008, anno dello scoppio della crisi mondiale, quando era a 0,491.

Quindi ben al di sopra dei livelli di guardia ma in calo, secondo il governo cinese, che da dodici anni non dava più dati ufficiali, considerando da un lato la difficoltà di rilevarli ma anche la criticità del dato medesimo.

In Cina questa notizia è stata accolta, usando come metro di rilevazione quel grande calderone che è internet cinese dove ormai navigano quasi 570 milioni di persone, con grandissimo scetticismo e sberleffi, perché la situazione è anche peggiore. Nel senso che le diseguaglianze sarebbero molto più gravi di quanto non rilevato in questi dati pur preoccupanti. Secondo questo dato, la Cina sarebbe come gli Stati uniti, dal punto di vista del gap dei redditi. Ma uno studio condotto l’anno scorso da una Università del Sichuan (Southwestern University of Finance and Economics), afferma che il coefficiente di Gini è dello 0,6, cioè uno dei più stratosferici dell'universo mondo.

Da cosa dipenderebbe questa divergenza di dati? Dal fatto che una quantità mostruosa di denaro nero circola in percorsi sotterranei: evasione fiscale e circuiti “out”. Un economista di Pechino, Wang Xiaolu, qualche anno fa aveva valutato che il circuito nascosto del denaro ammontava in Cina a 1500 miliardi di dollari, cioè un terzo del prodotto interno lordo.

Per non sommergervi di dati mi fermo qua, ma è evidente che la situazione è molto pesante e si ipotizza che la diffusione di questi dati dopo 12 anni sia un segnale da parte della nuova leadership cinese, entrata in carica nel novembre scorso con il diciottesimo congresso del partito, della decisione di passare ad un piano di redistribuzione del reddito. Cosa questa che però pare presenti notevoli difficoltà perché deve affrontare nodi molto intricati della situazione economica, sociale ed anche politica.

Seconda notizia interessante viene da altri dati diffusi negli ultimi due giorni e che riguardano la Cina in quanto “fabbrica del mondo”. Sto parlando del fatto che, per la prima volta nella storia cinese, il numero della popolazione in età lavorativa è diminuito.

La cifra totale della popolazione tra i 15 e i 59 anni nel 2012 ha toccato i 937 milioni di persone, vale a dire 3 milioni e mezzo in meno rispetto all'anno prima.

Questo significa che il grande bacino di mano d'opera si sta restringendo per cause demografiche, perché la politica del figlio unico sta prosciugando il serbatoio della forza lavoro più giovane, che è quella che viene impiegata nelle grandi fabbriche. Questo è un altro dei problemi che la dirigenza cinese si troverà di fronte. Già adesso c'è il problema di trovare operai in Cina per tutta una serie di ragioni che attengono anche alla modificazione antropologica della classe operaia cinese. L'ultima generazione di operai cinesi, quelli delle generazioni nate alla fine degli anni ’80 e negli anni ‘90 hanno un atteggiamento molto diverso nei confronti del lavoro e sono riluttanti, per esempio, ad impiegarsi stabilmente. Si assiste, dunque, ad un grandissimo turn over dovuto alle pessime condizioni di lavoro, alla mancanza di voglia di questi giovani della nuova classe operaia cinese di adattarsi a queste condizioni di lavoro. Quindi la caduta demografica del bacino di forza lavoro cinese fa parte del complesso groviglio di temi che i prossimi leader dovranno affrontare, il che significherà anche mettere mano ad una ristrutturazione del “lavoro”, dei salari e delle coperture sociali che devono essere assicurate a questi giovani operai che vengono dalle campagne e non hanno assicurazione sanitaria, non hanno casa a causa del loro hukou, cioè di uno status residenziale che li riconosce solo come contadini e non residenti urbani, e perché i salari non glielo consentono.

Il governo dovrà garantire, in questo contesto, anche una sorta di welfare perché questi giovani in campagna non ci torneranno.

La nuova dirigenza cinese si trova dunque ad affrontare dei problemi giganteschi, soprattutto quello che deriva dal cambiamento demografico: l'invecchiamento della popolazione si presenta con una velocità che non era stata prevista. Una diminuzione come quella resa nota negli ultimi giorni era stata prevista da qui a 5 anni ed invece è arrivata di colpo. I leader devono dunque governare un enorme paese dalle dinamiche accelerate dal percorso di sviluppo economico  intrapreso. I nodi sono enormi e quindi sono grandissime le aspettative da parte dei cinesi e da parte del mondo nei confronti di questa nuova leadership .

Quella che in Cina si è consumata con il diciottesimo congresso del partito è stata una “successione istituzionalizzata” secondo i dettami del defunto Deng Xiaoping che, avendo deciso che bisognava evitare che il partito si spaccasse al proprio interno sulle successioni, aveva imposto dopo Tienanmen un meccanismo di passaggio dei poteri che ora avviene ogni 10 anni.

L'anno scorso ha preso il potere la quinta generazione di leader: Xi Jinping diventato il capo dei capi, nel senso che è segretario del partito, capo della commissione militare e a marzo diventerà pure presidente, ha 59 anni e come premier a marzo si installerà definitivamente Li Keqiang, 57 anni. Si è aperta subito la grande questione di che tipo di leader saranno e quali aspettative riusciranno a fronteggiare e a soddisfare. Quello che all'interno i cinesi si aspettano è la soluzione di una quantità di questioni che non può avere una sola risposta. Quello che invece appare molto chiaro, almeno guardando i media internazionali, è che il mondo esterno si aspetta che la Cina vada verso un percorso di neoliberismo sempre più accentuato.

Queste speranze sono state indotte proprio dal percorso tormentato che ha portato al Congresso e che è stato segnato soprattutto dalla caduta in disgrazia clamorosa del segretario del partito di Chongqing Bo Xilai, figura controversa che, nel bene e nel male, rappresentava le speranze di una “sinistra” del partito o comunque di una sinistra sociale cinese.

Quell'ala del partito è stata definitivamente stroncata e questo ha suscitato speranze molto forti che questa nuova leadership farà delle riforme soprattutto economiche, e molti si aspettano anche riforme politiche, cioè una maggiore apertura alla riforma in senso democratico. Questo si aspettano i liberal. Ma per ora la nuova leadership è stata segnata, soprattutto da un punto di vista simbolico, dal fatto che Xi Jinping, il nuovo capo, ha fatto il suo primo viaggio nel paese proprio al sud, ripercorrendo il famoso “viaggio al sud” di Deng Xiaoping. Nel 1992, tre anni dopo Tienanmen, Deng decise di tagliare il nodo gordiano della paralisi politica all'interno del partito e disse che le riforme dovevano andare avanti. Per questo fece un simbolico "viaggio al sud", in cui percorse soprattutto tutta la Zona Economica Speciale di Shēnzhèn. Da quel momento in poi le riforme sono andate avanti come un treno nel senso che ormai tutti  conosciamo.

Il fatto che Xi Jinping abbia ripetuto questo tour al sud, l'esito del congresso, i nuovi vertici del partito e la scelta come uno dei primi slogan del “sogno cinese” (che si è aggiunto alle parole d'ordine della vecchia leadership, cioè “la società armoniosa”, “lo sviluppo scientifico”) sono stati gli elementi che hanno acceso negli occidentali la scintilla della speranza sul fatto che la Cina vada verso un percorso più occidentale di prima.

Questo non è affatto assicurato. Si tratta, per quanto riguarda questa nuova leadership, di un insieme molto ancorato al partito e soprattutto al denghismo.

Quindi quello che probabilmente si ripeterà sarà una spinta abbastanza forte, a mio avviso, verso riforme economiche in senso neoliberista sotto un forte controllo del partito, e scarsissime riforme in senso “democratico”, per quel che ciò può significare. Probabilmente si andrà verso una maggiore “democrazia” all'interno del partito nel senso che lo stesso partito cercherà di raccogliere al proprio interno le spinte “sociali”, le più diverse, con una fortissima accentuazione e privilegio rispetto alle classi che già si sono consolidate, cioè quella dei più ricchi e la nuova middle class cinese. Strati sociali questi che in qualche modo dovrebbero costituire la spina dorsale, la legittimazione del PCC e che però di fatto stanno ancora in bilico, non si fidano. Come dimostrano le esportazioni di capitali all'estero e il fatto che i consolati stranieri, come quello americano, canadese, australiano sono intasate dalle richieste dei ricchi cinesi di avere la doppia cittadinanza, nel senso che un numero crescente di benestanti cinesi è nelle liste privilegiate di migrazione, cioè quelle riservate a coloro che portano capitali e un’alta professionalità.