La Cina rallenta la crescita.
La notizia è rimbalzata in tutto il mondo, segno dell’importanza che
ormai il Dragone riveste nell’economia (e nella crisi) globale.
Si
passa dal 9,2 per cento del 2011 al 7,5 annunciato dal premier Wen
Jiabao per il 2012. Un vero cambio di rotta, se si considera che negli
ultimi quattro anni “difficili”, la crescita
del Paese non è mai scesa sotto il 9 per cento e nei cinque precedenti
ha raggiunto sempre la doppia cifra, con il punto più alto del 2007:
14,2 per cento.
Cambio di rotta sancito politicamente: il premier
uscente, che a ottobre lascerà il posto a qualcun altro, comunica che la
Cina sceglie di crescere meno. Perché?
Ai tempi della crisi finanziaria globale, quando Pechino temeva che la frenata degli ordini occidentali avrebbe rallentato la crescita, molti analisti prevedevano che i nodi del “modello cinese” sarebbero venuti al pettine: il Paese non può scendere sotto l’8 per cento – si diceva – altrimenti le masse che ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro non troveranno occupazione; e si moltiplicheranno le rivolte; e la Cina esploderà. Ma nel biennio 2008-2009 il Dragone riuscì a crescere rispettivamente del 9,6 e 9,2 per cento.
Ora invece
la Cina ha bisogno “di uno sviluppo di qualità superiore e per un
periodo di tempo più lungo”, ha detto Wen il 5 marzo di fronte
all’assemblea nazionale del popolo.
Il punto è che Pechino non deve
più assorbire così tanta forza lavoro come prima. La Cina sta
attraversando un grande cambiamento demografico a causa della
pluridecennale politica del figlio unico e del maggiore benessere, che
trasforma costumi e comportamenti. Spesso, nelle grandi città, dare alla
luce un solo figlio non è un imperativo, bensì una scelta: le madri
manager assomigliano sempre più alle nostre.
La popolazione inizia quindi a invecchiare e la creazione di posti di lavoro per milioni di giovani non è più così vitale. “Mentre la Cina necessitava di 10 milioni di nuovi posti di lavoro all’anno nei primi anni 2000, oggi ne ha bisogno solo della metà”, dice Chang Jian, economista di Barclays Capital a Hong Kong. “ Attualmente la forza lavoro nel suo complesso sta crescendo a malapena”, dice Stephen Green, capo della ricerca Greater Cina per Standard Chartered Bank di Hong Kong.
In alcune zone della Cina attualmente c’è
addirittura carenza di manodopera. È questo per esempio il caso della
tradizionale cintura manifatturiera lungo la costa sud-occidentale.
La nuova generazione di migranti
provenienti dalle regioni dell’interno si è accorta da un lato che non
deve più fare troppa strada per trovare lavoro, anche grazie agli
investimenti voluti dal governo per sviluppare le zone più arretrate e
per sovvenzionare l’agricoltura.
Dall’altro lato, anche quando
emigrano, questi giovani vivono un’estrema mobilità che si fonda su un
atteggiamento molto pragmatico e “infedele”: quando trovano di meglio,
piantano in asso il precedente datore di lavoro senza remore, dall’oggi
al domani.
Il calo numerico della forza lavoro e la sua “infedeltà” ha indotto i governi locali e gli stessi imprenditori ad aumentare i salari minimi.
La scorsa settimana sia la municipalità di Shanghai sia il governo
provinciale dello Shandong hanno preso misure di questo tipo, in linea
con una tendenza a livello nazionale.
Crescita più contenuta, salari
più alti. La Cina, che punta maggiormente sui consumi interni e la
qualità, è sempre più vicina. In fondo è quello che l’Occidente le
chiedeva da anni.