Cina - Picco di scioperi e repressioni, crepe nel regime

10 / 12 / 2015

In un famoso passo del Manifesto del Partito Comunista, Marx scrisse: “Il progresso dell'industria, di cui la borghesia è portatrice involontaria e passiva, produce, invece dell'isolamento dei lavoratori prodotto dalla concorrenza, la loro unificazione rivoluzionaria sotto forma di associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno sul quale essa produce e si appropria dei prodotti. Essa produce innanzitutto i suoi propri becchini”. Se la marxiana profezia non si è per ora realizzata per quanto riguarda la borghesia, essa si è senz’altro rivelata veridica per gran parte di quei partiti comunisti che si sono trasformati in burocrazie di stato.

Otto mesi fa si sottolineava l’importanza dell’ondata di scioperi registratasi negli ultimi anni nell’Asia orientale e sud-orientale, favorita dal rimpicciolimento dei giganteschi eserciti industriali di riserva di cui i capitali internazionali hanno goduto fino a poco fa. Nel frattempo, la tendenza all’acuirsi della conflittualità è stata ampiamente confermata, soprattutto in seguito alla crisi della Borsa di Shangai. Il China Labour Bulletin ha registrato 301 episodi di sciopero in Cina solo nel mese di novembre, un record nella storia recente del paese. I settori più agitati sono quelli dell’edilizia e della manifattura industriale. Seguono i taxisti, da mesi impegnati in una “guerra civile” contro gli autisti che si servono di app digitali. Si registra inoltre un aumento degli scioperi tra i minatori, che negli ultimi anni erano invece rimasti relativamente passivi. La prima causa di sciopero è il mancato pagamento di salari e contributi sociali, fenomeno già assai diffuso ma ingranditosi a causa del cedimento finanziario di questa estate. La risposta dello stato è arrivata forte e chiara. Il 3 dicembre almeno 21 attivisti dell’embrionale nuovo movimento operaio cinese sono stati arrestati a Guangzhou, capitale della regione ad alto sviluppo industriale Guandong. Quattro di loro, Zeng Feiyang, He Xiaobo, Zhu Xiaomei e Deng Xiaoming, sarebbero tuttora in carcere.

Il picco della conflittualità operaia nel paese alimenta la crisi politica che sta attraversando il regime a partito unico guidato dal PCC. Il giro di vite repressivo che si sta manifestando su multipli fronti indica una evidente erosione dell’egemonia del partito sulla società civile. Risale al 7 Marzo l’arresto del “quintetto femminista”, cinque attiviste che avevano pianificato delle proteste contro le molestie sessuali sui trasporti pubblici. Amnesty International fornisce una lista di 248 attivisti e avvocati arrestati provvisoriamente o per lunga durata tra il 9 luglio e il 7 dicembre 2015. Si aggiungono l’aumento dei controlli sui contenuti dei corsi universitari e un’intensificazione del culto della personalità di Xi Jinping sui media legali. Le difficoltà del regime sono anche legate alla gestione delle devastazioni ambientali, simboleggiate da eventi spettacolari come la gigantesca esplosione di sostanze chimiche al porto di Tianjin o la recente dichiarazione ufficiale dell’“allarme rosso” per lo smog a Pechino.

Per tentare di comprendere questa crisi e cercare di sviluppare qualche ipotesi sui suoi possibili sviluppi, è utile delineare uno schema interpretativo delle origini del regime del PCC. Il destino dei paesi del “socialismo reale” sembra corroborare le analisi dei decenni passati che descrivevano tali sistemi come “capitalismo di stato”. Il concetto, se utilizzato in modo statico, presenta senz’altro alcune macroscopiche difficoltà “tecniche”: in questi sistemi non esisteva la concorrenza di mercato tra aziende capitaliste e i lavoratori non erano “liberi” di abbandonare la propria occupazione. Sembrerebbe dunque più appropriato utilizzare espressioni quali “collettivismo burocratico”.

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Il concetto di capitalismo di stato ha però il merito di afferrare la direzione dinamica di tali sistemi, generatisi in situazioni di sottosviluppo tali per cui la borghesia nazionale era troppo debole per diventare il veicolo della modernizzazione necessaria per far fronte alle aggressioni imperialiste da parte dei paesi già sviluppati. Lo stato si sostituisce allora alla borghesia, organizzando la modernizzazione accelerata dell’economia con metodi ancora più autoritari di quelli dei paesi avanzati, metodi che quindi hanno poco a che vedere con la democrazia economica caratteristica del socialismo propriamente inteso. Tali metodi sono resi possibili dalla fusione istituzionale tra apparato statale e apparato di gestione dei mezzi di produzione. Il capitalismo di stato comporta dunque un “surplus repressivo” che diventa superfluo una volta che il paese ha superato le prime fasi della modernizzazione. Il capitalismo di stato è dunque “capitalista” in quanto incubatore del capitalismo in senso stretto. Al graduale cambiamento dell’economia e della società non corrisponde però un parallelo mutamento delle istituzioni politiche, ossificate in un sistema di partito e sindacato unico dipendente da alti livelli di repressione per la propria riproduzione.

Sembra che lo sfasamento tra sviluppo economico e autoritarismo politico stia raggiungendo il punto di rottura anche in Cina. Un aneddoto all’apparenza triviale – ma nell’opinione di chi scrive altamente significativo – può dare una misura dell’attuale scollamento tra partito unico e società. Il 9 giugno 2015 oltre 900 lavoratori dell’Artigas di Shenzen – fabbrica tessile fornitrice del colosso della distribuzione giapponese Uniqlo – sono entrati in sciopero e hanno occupato lo stabilimento per impedire che i macchinari venissero rimossi. L’azienda aveva infatti tentato di delocalizzare senza pagare i contributi e le indennità dovute. Il 14 luglio 2015, mentre l’occupazione dell’Artigas era tuttora in corso, due giovani di Shangai si sono filmati mentre facevano sesso all’interno di un camerino della Uniqlo e hanno poi caricato il video su internet. Il video è diventato immediatamente virale – ricordiamo che la pornografia in Cina è proibita – e ha realizzato milioni di click nel giro di un paio di notti, provocando l’intervento della censura di stato. I lavoratori in sciopero si sono giustamente risentiti dell’enorme attenzione ricevuta dal video incriminato, mentre i media e le istituzioni ignoravano per default le loro rivendicazioni. È stato così minacciato un cambiamento nella tattica comunicativa: “Basta con gli striscioni, andiamo a far sesso alla Uniqlo”!

La reazione delle autorità cinesi alla bizzarra catena di avvenimenti è stata la seguente: incarcerazione dei due giovani comparsi nel video e di altri tre presunti complici, abbandono dei lavoratori truffati al proprio destino, condanna morale verso tutti coloro che hanno guardato o condiviso il video per… comportamento anti-socialista! È difficile immaginare un più grande e ironico distacco tra retorica e realtà.

Per ritornare su un piano di discussione più serio, una conquista dei diritti civili e politici da parte dei lavoratori cinesi, coniugata alle lotte per le rivendicazioni socio-economiche, si tradurrà probabilmente in uno spostamento dei rapporti di forza globali tra capitale e lavoro a favore di quest’ultimo. Si tratterebbe di un passo in avanti verso la possibilità di una realizzazione in toto della marxiana profezia.

*** Lorenzo “Fe” Feltrin, di Treviso, è dottorando in scienze politiche alla University of Warwick, dove si occupa di sindacati e movimenti sociali in Marocco e Tunisia. Ha precedentemente collaborato con la casa editrice milanese Agenzia X, per la quale ha pubblicato il libro Londra Zero Zero sulle subculture anni zero della capitale inglese.

QUI per le varie info

[1] http://www.globalproject.info/it/mondi/da-dongguan-a-ho-chi-minh-city-alleuropa-le-lotte-operaie-in-asia-e-noi/18924

[2] http://www.clb.org.hk/en/content/number-strikes-and-worker-protests-china-hits-record-high-november

[3] https://dartthrowingchimp.wordpress.com/2015/05/31/visualizing-strike-activity-in-china/

[4] http://libcom.org/news/deng-xiaoming-criminal-detention-confirmed

[5] https://www.amnesty.org/en/documents/asa17/3016/2015/en/ 

[6] https://sites.google.com/site/artigasworkers/

[7] http://www.theguardian.com/world/2015/jul/16/uniqlo-sex-video-film-shot-in-beijing-store-goes-viral-and-angers-government

[8] http://qz.com/459891/striking-factory-workers-are-using-uniqlos-viral-sex-tape-to-highlight-their-low-pay-and-lack-of-job-security/