Ci siamo persi qualcosa? Fino a poco tempo fa,
se si parlava di riscaldamento del pianeta, la Cina aveva il ruolo del
cattivo: sempre più inquinata, senza intenzione di porre freni al suo
sviluppo. Gli Usa di Obama, invece, promettevano di prendere
l'iniziativa globale contro i cambiamenti del clima, rovesciando la
voluta inenzia dell'amministrazione Bush. Ora, specie dopo il discorso
del presidente Hu Jintao all'Onu, sulla Cina vengono riposte
improvvisamente buona parte delle speranze per arrivare a un accordo
sulla riduzione delle emissioni nel vertice di Copenaghen, che a
dicembre avrà il compito di rimpiazzare il protocollo di Kyoto.
Che
è successo? Non molto, e le descrizioni erano esagerate anche prima. La
Cina è inquinata e lo sanno anche le autorità di Pechino, che devono
fronteggiare un numero crescente di proteste locali contro fabbriche e
centrali; le falde acquifere di vaste regioni del Paese sono
contaminate, con ripercussioni sull'agricoltura e la salute dei
cittadini. Il Paese ottiene l'80 percento della sua energia elettrica
dal carbone, economico ma il più inquinante tra gli idrocarburi, e sta
costruendo una nuova centrale termoelettrica ogni 10 giorni.
Per
non parlare degli Usa in prima linea sul fronte ambientale. E' vero che
nella Silicon Valley c'è la più alta concentrazione di aziende della
new energy, e che Obama ha costantemente messo la lotta all'effetto
serra tra le sue priorità. Ma si parte da lontano. Il carbone non lo
usano solo i cinesi: metà dell'elettricità prodotta negli Usa è
generata grazie a esso. E i consumi dei veicoli americani - che si
"mangiano" il 70 percento del fabbisogno petrolifero nazionale - sono
più elevati in media rispetto a quelli europei e... cinesi, grazie a
restrittive leggi introdotte negli ultimi anni.
Nell'ultimo
anno, la Cina aveva già annunciato una serie di obiettivi per limitare
le sue emissioni: il discorso di Hu a New York riprende molti di questi
target (come il 15 percento di energia "verde" entro il 2020), ed è
stato lodato perché per la prima volta un leader cinese li ha enunciati
pubblicamente, per di più in una cornice così significativa. Da qui
alla conclusione "la Cina prende l'iniziativa nella lotta al
cambiamento climatico", il passo è stato breve. Il potere centralizzato
nelle mani del Partito comunista consente a Pechino di agire molto più
velocemente di Washington, dove il Congresso - con tutti i suoi
interessi locali e le lobby - annacqua spesso le linee guida date dal
presidente. In un certo senso, la Cina ha le mani più libere. Ma come
ha specificato più volte, non intende vedersele legate dai vincoli
fissati da un trattato internazionale.
Il nodo da risolvere per
arrivare a un accordo sul clima è proprio questo. Il protocollo di
Kyoto esentava la Cina (lo stesso discorso vale per l'India)
dall'obbligo di ridurre le emissioni, in quanto Paese in via di
sviluppo. Oggi, gli Usa e l'Europa non firmerebbero nessun accordo se
ciò non includesse limiti anche per la Cina, diventata l'anno scorso il
primo Paese per quantità di emissioni nocive. Ma Pechino non vuole
frenare la sua galoppante economia (il Pil crescerà di oltre il 7
percento anche in questo anno di crisi), temendo squilibri sociali e
possibili rivolte in caso di rallentamento. Il concetto su cui puntano
le autorità cinesi - e che lascia loro ampia scelta sul come e quando
arrivarci - è quindi quello della "carbon intensity", ossia il consumo
energetico per ogni unità di Pil.
Nel 2006, per ogni mille
dollari di Pil, la Cina ha emesso 2,85 tonnellate di biossido di
carbonio, oltre cinque volte la quantità degli Usa (0,52 tonnellate).
E' evidente che il Paese può fare enormi progressi in tal senso, e Hu
ha annunciato la volontà di ridurre quella cifra "di un margine
notevole". Ma è naturale che i consumi pro-capite sono destinati ad
aumentare man mano che i cinesi diventano più benestanti: al momento,
ogni cinese "produce" 6 tonnellate di anidride carbonica l'anno, contro
le 24 tonnellate di un americano.
Il problema è che - come ha
calcolato lo studio "China's green revolution" del gruppo McKinsey - da
qualunque parte la si guardi, le emissioni cinesi sono destinate ad
aumentare comunque. Secondo il rapporto, se il Pil cinese continua a
crescere del 7,8 percento annuo, il Paese raggiunge i suoi obiettivi di
riduzione della carbon intensity, rispetta i target per la produzione
di energia da fonti rinnovabili e allo stesso tempo migliora la sua
efficienza energetica del 4,8 percento annuo... entro il 2030 avrà
comunque raddoppiato le sue emissioni nocive rispetto al 2005. Il
pianeta può permetterselo? E' quello che si cercherà di stabilire da
qui al vertice di Copenaghen.
Alessandro Ursic