Strade chiuse, impossibilità di muoversi da una città all’altra senza permesso, sistema sanitario al collasso. Quello che per molti cittadini italiani è attualmente un incubo ad occhi aperti somiglia tragicamente alla quotidianità dei palestinesi dei Territori Occupati.
Uno sguardo generalizzato al problema della libertà di movimento: il sistema dei check-points rende ogni spostamento, anche per lavoro, una sorta di viaggio della speranza, in cui non si sa quando/se si arriverà a destinazione o, a volte, a casa. Quella di Israele è una burocrazia totalmente militarizzata, a tratti feroce, decisamente lontana, a meno che non si avverino le promesse di uno stato di guerra, dalla nostra.
Ora che l’epidemia ha costretto quasi tutto alla chiusura, non si vedono più file interminabili di centinaia di lavoratori palestinesi ammassati ai posti di blocco. Ma il pericolo di una strage non è sventato.
L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite (2018) sul tema dell’assistenza sanitaria a Gaza descriveva già il sistema come “giunto ad un punto di rottura”[1]: la violenta oppressione condotta da Israele durante la Grande Marcia del Ritorno (iniziata a Marzo 2018 e sospesa a Dicembre 2019) ha messo a dura prova la capacità ed efficienza degli ospedali. Le persone che all’epoca sono state menomate dai colpi dei cecchini israeliani continuano a necessitare di cure periodiche e finiscono per occupare la maggioranza dei letti disponibili - si calcola che ci sia 1 letto ogni 1000 persone. Va considerato inoltre che Gaza è continuamente soggetta ad interruzioni della corrente e del flusso d’acqua. I dati raccolti nell’ultimo mese indicano che gli abitanti hanno potuto usufruire di energia elettrica per un massimo di 15 ore al giorno[2].
Viste le condizioni igieniche già precarie, appare chiaro che
con il virus Covid-19 alle porte la prospettiva di un totale collasso del
sistema sanitario palestinese si faccia sempre più probabile e preoccupante.
Con 57 casi al momento confermati nel West Bank e 2 nella Striscia di Gaza, ci
si chiede come, quando e se il governo israeliano interverrà per sventare una
catastrofe umanitaria.
L’imperativo è quantomai stringente soprattutto se si considera con quale
facilità e rapidità il numero dei contagiati potrebbe aumentare in un
territorio come quello della Striscia, in cui la densità della popolazione si
attesta a circa 4600 persone per chilometro quadrato (contro i 2070 ab./km²
della città metropolitana di Milano, ad esempio).
La condizione dei palestinesi nei Territori Occupati non va tuttavia soltanto considerata nella prospettiva dell’emergenza. Questa pesantissima minaccia incombente potrebbe costringerci a vedere ciò che più spesso comodamente ignoriamo: scelte deliberate di Israele hanno portato Gaza e il West Bank all’isolamento, alla povertà e a gravissime carenze nei servizi di utilità sociale. Non è pertanto solo un intervento umanitario quello che si chiede a gran voce, ma un’assunzione di responsabilità.
Il “Coronavirus” colpisce indistintamente, ma avrà conseguenze diverse se ad
essere infettato sarà un israeliano o un palestinese, così come un benestante o
un senzatetto, un privilegiato o un rifugiato.
Il problema è politico, sociale e demografico, e richiede soluzioni dettate da
una volontà politica che assurga al compito di appianare le disuguaglianze. Per
quanto, realisticamente, non ci si possa attendere un improvviso cambio di
rotta del governo israeliano, proiettato incontrovertibilmente verso
l’annientamento delle istanze palestinesi, si dovrebbe d’altra parte pretendere
un gesto univoco da parte della comunità internazionale. Lo scoppio di questa pandemia
globale potrebbe allora davvero diventare occasione imperdibile per rivoltare
le sorti degli oppressi.
Fonti:
Jehad Abusalim su +972 Magazine, 22 Marzo 2020
[1]https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=23236&LangID=E
[2]https://www.ochaopt.org/page/gaza-strip-electricity-supply
PH. Credit: AFP, 16 marzo 2020