Colombia, fermate i massacri

13 / 5 / 2021

Sono ormai trascorse due settimane dall’inizio del “paro nacional” contro la riforma tributaria ma la crisi sociale colombiana sembra lontana dal concludersi. Quella che era iniziata come la protesta contro una singola riforma neoliberista, si è trasformata con il passare dei giorni in una rivolta contro lo stesso sistema neoliberista grazie a un movimento potente e inarrestabile che ha perso perfino la paura di fronte a una repressione che definire da dittatura sanguinaria è poco. 

Nel completo silenzio della comunità internazionale e dei media, il presidente Duque ha risposto alle proteste di piazza con un solo modo: dando l’ordine di sparare sulla popolazione, facendola sparire, uccidendola, terrorizzandola, violandola, inseguendola e aggredendola fin dentro alle case. Sono i fatti a parlare, sono le migliaia di segnalazioni raccolte dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani del paese, come Temblores, Defender la Libertad, Indepaz, Human Rights Internacional.

Dati che mettono orrore ogni giorno di più a leggerli e ad elencarli, perché dietro ogni “numero” c’è una persona, la sua sofferenza e quella della sua famiglia e dei suoi amici. Persone innocenti, aggredite senza motivo dall’esercito, dalla ESMAD e, soprattutto negli ultimi giorni da civili armati, paramilitari dunque, invocati in primis proprio da Duque e dall’ex narco presidente Uribe, ma anche da molti sindaci per “riportare l’ordine” nelle città. A suon di sparatorie. 

Eccoli quindi i dati drammatici dopo tredici giorni di sciopero generale. Secondo il report redatto da Defender la Libertad, fino all’11 maggio sono state raccolte testimonianze su 52 casi di violenza omicida, 1365 detenzioni arbitrarie, 12 casi di violenza di genere, 548 denunce di persone scomparse di cui solo 113 sono successivamente riapparse, 489 persone ferite di cui 28 con ferite oculari, 709 casi di abuso di potere, aggressioni e violenze poliziesche.

Il “paro nacional” colombiano in molti aspetti sembra ripetere la rivolta cilena che ormai da oltre un anno e mezzo divampa nel paese: iniziata come una protesta contro una riforma in particolare si è trasformata nel rifiuto verso un sistema di governo corrotto, violento, assassino, al quale, come suggerisce Zibechi, non interessa il dialogo, ritiene chi manifesta un terrorista e come tale lo affronta, sparandogli contro senza pietà. Ma «non c’è uscita da questo modello senza potenti mobilitazioni in basso e a sinistra. Se ne esce solo con una crisi politica, perché chi beneficia dell’estrattivismo, probabilmente il 30% della società, difenderà i propri privilegi con la violenza generalizzata».

In questi quindici giorni di protesta Cali si è trasformata nel centro della resistenza alla brutalità e alla violenza delle forze armate. Qualche giorno fa, in località Jamundi a pochi chilometri da Cali, uomini armati vestiti da civili hanno attaccato a suon di pallottole la guardia indigena del CRIC (Consejo Regional Indígena del Cauca) che da giorni era scesa in città per sostenere e difendere lo sciopero generale. L’agguato, avvenuto a seguito degli appelli del presidente, dell’ex presidente Uribe e del sindaco di fermare i “vandali terroristi” e di riportare l’ordine in città ad ogni costo, ha lasciato un saldo di dodici persone ferite, di cui quattro in modo grave, tra cui l’attivista Daniela Soto, indigena nasa. 

È questo il modus operandi del governo Duque: ora, non sono solo più le forze armate ufficiali a massacrare la popolazione che protesta pacificamente, ma vengono fomentati, foraggiati e utilizzati anche gruppi paramilitari che agiscono impunemente, coadiuvati e protetti dalle stesse forze armate. L’attacco del governo avviene su più fronti: oltre a quello militare, interi settori delle grandi città devono fare i conti ogni sera con el apagón, la sospensione dell’erogazione dell’energia elettrica e con la sospensione del servizio internet e di linea dei telefoni, per impedire le comunicazioni fra i manifestanti e la diffusione in rete dei video comprovanti le numerose violazioni dei diritti umani di cui si rendono responsabili le forze armate. 

A lato, c’è poi la gestione politica della repressione messa in atto: per esempio, il presidente Duque aveva intimato al movimento indigeno di ritornare nelle loro “riserve”, accusandoli poi, dopo l’agguato subìto di aver aggredito la pacifica popolazione caleña e che quindi l’utilizzo della forza era stato necessario per riportare l’ordine e impedire che i vandali indigeni continuassero a far danni. Per fortuna, le immagini facilmente reperibili in rete, documentano e mostrano un’altra storia, come ha poi denunciato il CRIC: sono gli stessi uomini in borghese ad aprire il fuoco a freddo verso la minga indigena, mentre le forze armate guardano e controllano senza intervenire. 

Ma nemmeno tutta questa “lucida follia omicida” è riuscita nell’intento di fermare il “paro nacional”. Le strade colombiane continuano a riempirsi di manifestanti ogni giorno, perché il problema non è più questa o quella riforma, ma il sistema politico violento che governa il paese. Numerose le manifestazioni lanciate per i prossimi giorni, anche alla luce del fallimento del primo incontro tra Duque e il Comité Nacional del Paro.  

A lato dell’apertura al dialogo, infatti, la risposta di Duque è stata quella di promettere e inviare ancora più militari nelle strade, vale a dire, ancora più morti, desaparecidos, feriti, violenze e violazioni. Chi aiuterà il popolo colombiano a fermare questo massacro e l’assassino in doppiopetto? Perché né alla stampa internazionale, né alla comunità politica internazionale al momento sembra interessare fermare questa tragedia umanitaria.